Non vi è ancora nulla di certo riguardo alla cause della morta della fotografa cilena Albertina Martinez Burgos. I fatti dicono semplicemente che Albertina, 38 anni, è stata trovata morta nel proprio appartamento con evidenti tracce di una morte violenta per via del sangue che ne circondava il cadavere e delle ferite da arma bianca sul corpo. Dall’appartamento sono spariti il personal computer e la fotocamera che la fotografa aveva utilizzato per riprendere, nei giorni precedenti, alcune fasi delle violente proteste (duramente represse) in corso in Cile da settimane.
Trarre conclusioni prima di una conferma da parte di coloro che indagano è errato ma occorre ammettere che questo breve elenco degli eventi cui Albertina ha dovuto infine piegarsi non lascia presagire alcunché di differente dalla peggiore delle ipotesi. Il fatto stesso che una donna sia stata uccisa nella propria abitazione e derubata è drammatico oltre che gravissimo. Il fatto che fosse una fotografa è forse solo una postilla al dramma umano e sociale che la perdita delinea ma è ciò che ci lascia ancora più attoniti. Il pensiero corre a lei, sconosciuta ai più fino a meno di una settimana fa, come potrebbe correre a coloro che svolgono questo mestiere per professione o per passione e che conosciamo di persona, con cui parliamo, con cui tessiamo ogni giorno rapporti. Questa vicinanza nel praticare attività comuni, note a noi come erano note a lei, ci fa immedesimare ancora di più in quelli che devono essere stati i suoi ultimi momenti. Non che ve ne sia necessità per partecipare al cordoglio, ma purtroppo la sensibilità umana percepisce e pesa istintivamente anche questi dettagli. Sapere che Albertina Martinez Burgos è morta ci addolora e indigna, sapere che era una fotografa che stava seguendo una propria strada, così bruscamente interrotta, ci atterrisce e lascia sgomenti.
