Non basta osservale, le vite degli altri bisogna viverle. Attraverso semplici immagini? Non solo, attraverso vere e proprie storie. Ecco un estratto di quello che potrete “sentire” al Festival della Fotografia Etica di Lodi.
Lodi si trasforma come ogni anno nel polo fotografico italiano per eccellenza, dove storie da tutto il mondo confluiscono in una narrazione a 360°. Una “fotografia” che non si limita all’attualità ma che trova il suo filo conduttore proprio a ritroso nel tempo: benvenuti al Festival di Fotografia Etica.
Come dice Alberto Prina – fondatore dell’Associazione fotografica Gruppo Fotografico Progetto Immagine e coordinatore del Festival annuale della Fotografia Etica – durante l’incontro tra il Festival e la stampa che si è tenuto lo scorso weekend a Lodi: “È un’edizione che ci piace”. Lui, che come sempre si è messo a disposizione per farci da Cicerone attraverso le varie sedi espositive, è orgoglioso e soddisfatto di questa edizione che trasforma Lodi in un polo fotografico non solo ben allestito ma che vuole essere una sorta di tavola rotonda attorno alla quale discutere di temi importanti. Storie uniche, emozionanti e necessarie. Storie che sono “Le vite degli altri”. La fotografia deve parlare a tutti, soprattutto ai non fotografi perche sono proprio loro che vogliono conoscere il mondo attraverso il linguaggio più potente che esista.
“È questo il nostro lavoro, educare al linguaggio e fare cultura.”
Alberto Prina
È un festival doppio, forse anche triplo. Accanto alle sedi storiche come Palazzo Modignani (Le vite degli altri), Palazzo Barni (World Report Award), l’Ex Cavallerizza (World Report Award Single Shot), Palazzo della Provincia (AFP) l’EX Chiesa dell’Angelo (Vital Impact) e il Museo Gorini (Spazio No Profit), si sono aggiunte anche la Questura (Immagini della Polizia Scientifica) e quasi 70 espositori in 50 differenti sedi che ospitano il Circuito Off. Tutto per rendere la città un posto piacevole, un approccio alla conoscenza che deve essere lento e distribuito. L’unico che permetta di “sentire quello che un’immagine ha da comunicarci”.
L’impianto è immutato. Ogni spazio è un’area fisica e tematica nonostante il festival non voglia essere propriamente diviso per temi. Ad esempio a Palazzo Barni, sede del World Report Award – Documenting Humanity, sono esposte cinque storie differenti, scelte utilizzando gli scatti pervenuti al concorso negli ultimi tre anni. “Riteniamo che non debba essere una gara ma un approfondimento culturale. È anche andare contro quel senso di velocità a cui siamo abituati oggi, che vuole che siano solo i progetti recenti e inediti ad avere la ribalta”. Nella prima sala spicca il Master Award assegnato quest’anno al fotografo brasiliano Felipe Fittipaldi con “Eustasy”. Il racconto, fatto di immagini cupe e chiuse, ci porta attraverso un fenomeno non direttamente visibile se non nella sua fase finale, quello dell’erosione. L’eustasismo, la lotta tra il mare e il fiume: se il fiume viene prosciugato, il mare avanza e distrugge villaggi e abitazioni. In questo caso quello di Atafona, una cittadina situata nel delta del fiume Paraíba do Sul. Un lavoro quello di Fittipaldi che concentra anni di movimento in un percorso di circa venti minuti.
Si prosegue poi con Isabella Franceschini, vincitrice dello Short Story Award con “Becoming Citizen”. In questa categoria si devono presentare un massimo di dieci scatti, ma la giuria ha scelto di mostrare un corpus maggiore di questo reportage portandoli a venti. Questa è la storia di Michelle, una ragazza di 15 anni che è una delle più giovani sindache d’Italia e Consigliera regionale recentemente eletta. Il suo compito è quello di esprimere opinioni riguardo le misure regionali in atto e formulare proposte per contribuire alla protezione dei diritti umani del fanciullo, come vuole la legge parlamentare del 1997 che ha introdotto la partecipazione dei giovani negli organismi politici attraverso i Consigli Comunali dei Ragazzi.
La sala successiva è un pugno allo stomaco: Alessio Mamo con “Uncovering Iraq”, Menzione Speciale Master Award. Un dramma spaventoso che il fotografo cerca di tramandare con un lavoro certosino. Negli ultimi quarant’anni il suolo iracheno ha celato i cadaveri di centinaia di migliaia di vittime all’interno delle fosse comuni. La riesumazione e l’analisi è affidata ad un team iracheno del Dipartimento di Medicina Legale composto da antropologi forensi, medici ed esperti. Mamo li ha seguiti per portare alla luce crimini contro l’umanità, identificando i corpi per poterli restituire alle famiglie delle vittime.
Terzo slot di immagini il reportage di Valentin Goppel vincitore dello Student Award con “Between the Years”. Cominciato durante il Capodanno 2020 con il suo primo scatto, Goppel ha immortalato la pandemia di amici e conoscenti da un punto di vista privilegiato. Mostra l’intimità, i rapporti e le difficoltà di come ha vissuto il Covid la sua generazione in modo spontaneo e diretto. Una presa di coscienza, in prima persona, del disorientamento.
Infine la norvegese Line Ørnes Søndergaard che con The Split – A Brexit Love Story vince la sezione Spotlight. Il racconto narra la storia di Aleksandra, madre single lituana che vive a Boston nel Lincolnshire, la regione del Regno Unito a più alta concentarzione di voti favorevoli alla Brexit. Il perché è proprio da ricercare nell’alta presenza di migranti come lei provenienti dall’Europa dell’est. Questo reportage mostra le difficoltà e l’incertezza economica di chi sa che a breve dovrà abbandonare tutto.
A Palazzo Modignani invece viene allestito il secondo grande corpus del Festival della Fotografia Etica 2022: Le vite degli altri. Uno spazio creato per raccontare storie e costumi di popolazioni remote. Sei storie che vengono recuperate dal World Report Award – Documenting Humanity. Ad accogliere i visitatori è “In the world, but not of it” di Tim Smith, documentario sulle comunità canadesi degli Hutteriti che cercano di portare avanti uno stile di vita antico, legato alla terra, ma con una piccola introduzione della tecnologia.
Nella sala successiva Xiangyu Long con “TikTok nella regione del Kham”, ovvero come la tecnologia sia arrivata fino all’Himalaya. L’intero tessuto sociale si sta modificando e adeguando alle nuove esigenze mediatiche. Le feste, i compleanni, persino le ordinazioni di cibo sono ora fatti in diretta su TikTok: una schiera di followers che contribuisce a sostentare i villaggi non solo grazie a donazioni ma anche all’acquisto di prodotti locali. Tutto ciò ha portato anche un inaspettato picco del turismo grazie principalmente ad una star: Ding Zhen.
E poi il daily life della regione del Donbass, “The Don Steppe” di Misha Maslennikov. Invece Thomas Morel-Fort con “Donna. A filipina life of sacrifice”, narra la storia di Donna, filippina arrivata in Francia attraverso la tratta di essere umani e che ha iniziato a lavorare a tempo pieno per una ricca famiglia dei Paesi del Golfo e in una villa sulla Costa Azzurra. Senza documenti, non sa ancora quando potrà tornare a Manila.
Presente anche il già Premio Pulitzer Barbara Davidson con “Valerie and Hanry: Homeless with a Hope”, la storia d’amore e difficoltà di Valerie ed Henry, due senzatetto di Los Angeles che in pochi anni sono passati dal vivere in un parco all’essere affidati ai servizi sociali.
Infine, inaspettato quanto emozionale, l’incontro con Erika Pezzoli che ci ha parlato del suo reportage “Artemide”. La storia visuale si sviluppa attorno a Carola, la prima donna della sua famiglia ad avere la licenza di caccia ed è una della pochissime cacciatrici della Valle d’Aosta. Due anni per capire cosa raccontare e instaurare un rapporto di fiducia. Lei è cacciatrice di seconda generazione, con un rapporto molto intimo con quello che è la sua vita, la natura e la sua professione: mangia solo la carne che caccia. Ha studiato, ha seguito corsi, ha imparato a sparare in maniera corretta per eliminare la sofferenza dell’animale.
I capi vengono assegnati ai cacciatori con un intento ben preciso: preservare la biodiversità e controllare le epidemie. È una caccia di selezione. Avere un bosco pieno di erbivori fa male al bosco, aver troppi carnivori in giro vuol dire non rispettare le natalità. La collaborazione tra cacciatore e forestale è molto stretta, serve ad avere una stima dello stato di salute degli animali nell’area. Carola si occupa di tutto: dalla caccia alla macellazione. “Sarebbe stato molto facile mostrare il sangue. Ma cosa sarebbe rimasto di questo reportage? Solo quello. Qui invece traspare tutta l’attenzione e il rispetto per l’animale.”
E questo solo nelle prime due sedi storiche della città di Lodi. Il Festival della Fotografia Etica è molto, molto, di più. Come scrissi lo scorso anno: una cura per sé stessi e per la propria anima.
Festival della Fotografia Etica
fino al 23/10/22
Lodi