Il libro Diamonds raccoglie una eclettica, per tecnica, per stile e per soggetti, raccolta di ritratti di periferia di Steve Panariti .Si distingue per un approccio al ritratto di taglio squisitamente Street ma motivato da un background tecnico estremamente eterogeneo proprio del mondo della moda, da cui l’autore professionalmente proviene.
Mi è giunta di recente la comunicazione, tramite email come ormai suole in queste cose, della pubblicazione da parte di 89books (www.89books.com casa editrice indipendente palermitana di libri e volumi fotografici e d’arte) di un volume fotografico incentrato sulle vicende di taglio street-ritrattistico narrate (e qui il motivo per cui ho ritenuto interessante approfondire la cosa) da parte di un fotografo italiano, torinese per l’esattezza, di nome Steve Panariti. I ritratti di periferia di Steve Panariti contenuti all’interno delle pagine del volume hanno indubbiamente un merito: ci attraggono sin dal primo frettoloso sfoglio ‘alla rovescia’ del libro fotografico!
Tempo fa, non saprei dire esattamente quando ma al massimo un anno o due orsono, lessi su un qualche sito Web lo stralcio di una conversazione tenuta tra l’intervistatore di allora e l’autore di cui ci occupiamo oggi, ovvero Steve Panariti. Il fotografo narrava: “Da questi ultimi (allude agli scatti catturati dietro le quinte delle sfilate di moda cui presenzia in qualità di fotografo incaricato – NDR) ho iniziato un percorso parallelo fatto di persone vere con vite difficili e storie interessanti. Molti mi raccontano la loro storia, qualcuno mi vuole picchiare. Questi sono i personaggi che preferisco, i miei top model.”.
Quel ‘mi vuole picchiare’ è, volenti o nolenti, l’elemento forte con cui fare i conti quando ci si appassiona alla fotografia si strada, alla street, alla ritrattistica improvvisata, non annunciata. Vogliamo buttare lì due nomi? Bruce Gilden, capostipite di una generazione di fotografi un po’ corsari ma spesso geniali, Nan Goldin, ambasciatrice di storie personali al limite del dramma divenute ormai simbolo esse stesse di una realtà non troppo parallela che ci lambisce spesso prima ancora che ce ne accorgiamo, Jérôme Sessini e mettiamoci pure Lee Jeffries, assai più contemporaneo ma ben noto a chi frequenta l’ambito della ritrattistica di genere urbano.
Insomma, il fatto che Steve Panariti pubblichi oggi Diamonds mi fa piacere e non mi sorprende più di tanto per almeno un paio di ragioni. Per prima cosa, certo, per i suoi scatti che appaiono dalle prima pagine del volume in tutta la loro eterogeneità, abbondanza e naturalezza priva di inutili infiocchettamenti. In secondo luogo perché la storia del fotografo è certamente interessante e mi aveva colpito sin da quel primo fugace contatto con gli scatti dell’autore. Per altro potrebbe essere una storia condivisa da molti che vogliano intraprendere il medesimo o differenti ma simili percorsi fotografici. A condizioni ben chiare però…
Essa si snoda, a mio personale modo di vedere, su due differenti binari, i quali chiaramente finiscono per intersecarsi. Da un lato quello del fotografo ‘tecnicamente formato’ che per professione (Steve Panariti era ed è un fotografo di moda, nel caso non si fosse compreso ancora) acquisisce un metodo di lavoro consolidato ed estremamente votato alla professione ed alla produzione e che riesce a piegare questo know how e questa esperienza, maturata in ambito commerciale, verso ‘altro’. Dell’altro la storia di una ricerca personale che parte dall’Italia, transita nel mondo nomade del fashion globale, finisce per arrivare nel States e in tutto questo processo segue, quasi si trattasse di un romanzo di formazione, l’interesse del fotografo per l’apparenza della passerella, la realtà del dietro le quinte ed infine per le quinte della vita vera dei protagonisti di Diamonds.
Attenzione: entrambi gli aspetti sopra citati sono egualmente importanti per definire l’approccio di Steve Panariti ai propri ‘top model’. I suoi scatti possono sembrare vessati da ogni tipo di avversità: sfocato, bruciature, mosso, decentramenti di ogni sorta. Beh, lo sono. Eppure ci attraggono, ci piacciono, ci interessano. Questa capacità viene dal sapere cosa si sta facendo, probabilmente da un gusto per l’immagine che un percorso non intensamente professionale, come è stato quello dell’autore, non saprebbe darci. Al pari di questa forma, di questo stile ‘sporco’ e ‘cattivo’ troviamo poi i soggetti, scelti accuratamente per descrivere un ambiente periferico, di almeno apparente disagio sociale, collaterale forse al mondo ripulito e dorato della moda da cui Steve importa le proprie capacità tecniche. Si tratta di soggetti ‘antigraziosi’ (ricordate questo termine e leggete l’intervista!).
Si noti che il volume Diamond comprende quasi ogni sorta di tecnica di scatto nota! Dal flash allo slow-synch, passando per luce naturale o artificiale, in bianconero o colore, in digitale o pellicola! Con questo bagaglio tecnico Steve Panariti percorre le periferie, contesto che conosce anche per il fatto di provenire da una della celebri periferie italiane come Barriera di Torino sa essere e ne ritrai gli abitanti o i passanti. Sceglie anche, certo, a posteriori. E sceglie con cura ciò che sia in grado di trasmettere quel senso di precarietà, di limite, forse non sempre oggettivo ma reale perché non orchestrato prima dello scatto, che ci colpisce. Il motivo non ce lo deve suggerire Steve Panariti, dobbiamo chiederlo a noi stessi.
Per farla breve: un volume interessante, molto ricco di scatti, introdotto da un testo di Guido Costa che giustamente pone l’accento sulla questione periferica non derogabile, visto anche che pare proprio questa riscoperta dei quartieri marginali delle città uno dei serbatoi più interessanti oggi da cui attingere a livello di indagine antropica.
Buongiorno Steve, grazie per aver accettato questa intervista.
L’occasione nasce dalla pubblicazione di “Diamonds – Il libro fotografico di Steve Panariti” ad opera di 89Books (www.89books.com). Si tratta di un volume oltremodo ricco di scatti (55 pagine piene-piene di ritratti di gusto e stile prevalentemente street) che percorrono “da Torino, a Parigi, a New York, lo ‘Spirito di Barriera’ nei volti delle periferie catturati dal fotografo di moda”. Mi giunge tra le mani anticipato da questa breve ma curiosa postilla il libro fotografico cui Guido Costa antepone l’interessante introduzione di taglio saggistico ad un genere, la street ed il ritratto ‘urbano’, i quali solitamente mancano proprio di questa componente storiografica.
Sono due i termini da cui vorrei partire per domandarle del suo lavoro: uno è ‘antigraziosi’, utilizzato da Guido Costa all’interno della traduzione italiana dell’introduzione cui mi rifacevo in principio, e il ruolo di ‘fotografo di moda’ che le viene affidato nel presentare una collezione di scatti i quali, per la particolare connotazione estetica e posturale, appunto antigraziosa, dei soggetti ripresi fornisce quel guizzo di contrasto che mi ha invogliato ad approfondire.
Quali sono i suoi trascorsi nella fotografia di moda? Studio, ‘catwalk’ o entrambi? Ci può definire in pochissime parole quelli che sono, oggi, i requisiti principali richiesti al fotografo di moda che desideri farsi strada in questo impegnativo settore?
Ho iniziato quasi per caso nel 2000 come “seconda camera”. Facevo foto di backup nel caso il fotografo principale si dimenticasse qualche posa o inquadratura, a lungo andare i clienti hanno iniziato a selezionare le mie foto anziché quelle del fotografo selezionato per lo shooting. Ovviamente tutto in pellicola. Adesso le cose sono cambiate, se vuoi fare il fotografo puoi utilizzare i social per farti conoscere, di contro, con questo modus, sei una goccia in mezzo al mare di “photographer” presunti o che si spacciano per tali.
Da qualche decennio la fotografia di moda si giova volutamente di contesti, di modelli, di stili fotografici che vanno contro quelli che sono gli attributi di ordine, bellezza, correttezza cui sino agli anni ‘80 eravamo abituati (può tranquillamente correggermi dato che è lei a conoscere la realtà dei fatti). Quando e perché secondo lei è avvenuta questa virata nel cercare volutamente situazioni, soggetti, estetiche ‘antigraziose’? È solo la necessità di distinguersi o c’è altro?
È sicuramente una cifra stilistica scattare il brutto spacciando per bello. Gli anni ‘80 di Bruce Weber sono lontani, nonostante ci sia ancora per qualcuno la voglia di ritrarre il bello e patinato. Diciamo che l’antiestetico nasce già negli anni ‘90 e non a caso fotografi come Nan Goldin hanno scattato usando il proprio stile che ha fatto scuola e proprio da quella lezione sono nati tanti allievi.
Nello sfogliare il suo libro ho avuto la sensazione che imprinting provenienti dai suoi trascorsi di moda siano percepibili nel modo in cui lei affronta la ritrattistica da strada. Soprattutto per come sembra essere a suo agio nel ‘giocare’ con inquadrature del soggetto estremamente varie, negli stili estremamente variegati che vengono inclusi all’interno della raccolta. Troviamo colore, bianconero, pellicola (giusto?), flash ‘sparato’ o luce naturale, posa e improvvisazione. Anche qui, nel ritratto ‘street’, l’antigraziosità prevale. Perché anche in questo genere, secondo lei, ci piace il soggetto… diversamente attraente?
Le tecniche che ho utilizzato sono varie e anche i supporti, molta pellicola e poco digitale. La varietà che ha notato dipende anche dal fatto che è un lavoro fatto in circa 6 anni utilizzando la macchina fotografica che avevo in tasca in quel momento. In tutti questi anni ho cambiato varie macchine fotografiche ma una costante è il flash: quello lo porto sempre con me ed è il protagonista in molti scatti, mi aiuta a dare drammaticità a volti già drammatici.
Esiste, in fotografia, anche un ulteriore livello di estetica, che non è quello del contenuto della ripresa bensì quello della tecnica impiegata che lei pare maneggiare con pari disinvoltura nel proporre senza remore mossi, sfocati, bruciature, decentramenti estremi. Perché, anche in questo caso, siamo così attratti da scatti i quali vanno diametralmente all’opposto delle nozioni tecniche che ci sono state impartite come ‘corrette’ quando studiavamo fotografia?
Penso che alcune foto, mosse, sfocate e bruciate aiutino lo storytelling del book, lo stesso progetto Diamonds, ma non solo. La foto sfocata, vista singolarmente e fuori da contesto ha meno forza che all’interno di un racconto. Il fascino di queste foto è dato dalla spontaneità dello scatto e dal coraggio di non scartarla quando la vedi stampata dopo lo sviluppo.
Riprendiamo il filo conduttore del suo progetto: la periferia, la Barriera. Nell’ultimo anno ho osservato un crescente interesse fotografico ma anche sociologico per questo ambito cittadino, come se la gentrificazione cui le nostre città sono così fortemente soggette stia riportando l’interesse per la persona, per la realtà fuori dal centro, verso quei quartieri in cui è possibile incontrare ‘persone reali’ con ‘vite reali’, impegnate in ‘attività reali’. Semmai anche con ‘problemi reali’, sebbene in fotografia questi li possiamo solo intuire. Per lei cosa rappresenta la periferia, Barriera… la banlieu?
Io sono nato e cresciuto in Barriera di Milano a Torino. Per me è un gesto dovuto e naturale documentare certe realtà. Sapere che anche altri fotografi si interessano alle Barriere mi fa un enorme piacere, forse per quel gusto antiestetico che si è sviluppato dagli anni ’90.
La periferia all’estero è la stessa che quella italiana o torinese? E le persone che la popolano? Lei si trova sempre a suo agio in questi contesti? Mi pare di capire che anche i suoi trascorsi personali siano afferenti a Barriera: è difficile osservare questi contesti, per poterli fotografare, con lo stupore di chi li percepisce per la prima volta? O è un aiuto a muoversi con disinvoltura?
Crescere in periferia mi ha dato quella “cazzimma” ideale per sentirmi sempre a mio agio in situazioni anche al limite. Certi contesti sono più o meno internazionali, trovi, bene o male, le stesse situazioni anche dall’altra parte dell’oceano, ma non per questo li approccio con meno stupore.
Quali sono le principali tecniche di ripresa che lei mette in atto solitamente nel ritratto street di questo tipo, se esistono costanti in tale ambito? Mi pare di distinguere principalmente due tipi di approccio, uno posato e l’altro ‘rubato, mi perdoni il termine. È così? Come le piace fotografare di preferenza? E inoltre… tanto verticale!
Esattamente, gli approcci sono due: fondamentalmente scelgo in base al soggetto, non solo per quanto riguarda l’estetica ma anche per la parte caratteriale. Mi capita spesso di approcciare il soggetto a parlargli per un’oretta e la foto, in quel caso frontale senza flash, è solo la parte finale dell’approccio, della chiacchierata.
Quando il colore? Quando il bianconero? E la pellicola? Ci può dire che fotocamera e con quali ottiche o accessori fotografa solitamente? Citi tranquillamente brand e modelli, non è un problema, anzi.
Tendenzialmente scatto con quello che ho in tasca in quel momento. Mi capita spesso di avere delle compatte tipo Olympus con un rullino a colori, altre volte una Ricoh digitale oppure una Rollei 35. L’unica cosa che non cambia mai, come dicevo prima, è il mio flash Contax.
Ci può consigliare, a noi come ai moltissimi fotografi street che stanno leggendo e che vorrebbero riuscire ad ottenere risultati di questo tipo, come avvicinare soggetti come i suoi? Lei come riesce ad individuare coloro i quali entrano poi a fare parte delle sue storie? Li segue? O li conosce? Li ferma per strada? Ci parla o li sorprende?
L’incontro è sempre casuale e l’approccio è disinvolto, dato soprattutto dal fatto che sono nato e cresciuto in periferia. Quello che posso consigliare è cercare di capire quando è il momento adatto per non disturbare una persona: si può rischiare molto se il soggetto o la situazione non sono sicuri.
Certamente sono elementi forti come i volti segnati dal tempo o dai colpi, gli sguardi persi altrove, l’espressione scomposta, il tatuaggio ‘artigianale’ o un abbigliamento ‘naif’ a costituire motivo di scelta tra i molti che lei propone. Forse questa attenzione per il particolare le viene dai trascorsi nella fotografia di moda o forse rappresentano una parte ‘normale’ di ciò che ci circonda e di cui nemmeno ci accorgiamo. Cosa le interessa delle persone? Cosa la attrae di tutto ciò quando sceglie gli scatti da rendere pubblici?
Sicuramente l’attenzione ai particolari è una cosa che ho sviluppato negli anni e la moda ha fatto la sua parte. Molte volte mi accorgo dei particolari solo una volta sviluppata la foto, ad esempio mi sono accorto dopo aver parlato per un’ora con una signora di Palermo che aveva un vistoso pacemaker ben visibile sotto la sua sottilissima pelle.
Lei fotografa molto in termini di frequenza e numero di riprese (parliamo ovviamente della ritrattistica street, non della sua professione di fotografo di moda)? E quanto scarta alla fine? C’è spazio per l’editing digitale nel suo flusso di lavoro? In quali termini?
Ci sono periodi in cui scatto ossessivamente, ogni giorno decine di foto, centinaia al mese. Poi alcuni periodi in cui non scatto nulla, come se dovessi purificarmi dalle centinaia di volti che incontro per strada. L’editing in alcuni casi è fondamentale (ad esempio per passare dal colore al bianco e nero), in altri è superfluo o inutile: se una foto è sfocata o sgranata rimane così senza post.
Quali sono i fotografi che le piacciono, cui lei si ispira o che ritiene l’abbiano portata allo stile odierno che la distingue?
Tra i tanti fotografi che seguo stimo tantissimo Jérôme Sessini ed Ed Templeton. Parliamo di due linguaggi agli antipodi ma capaci di comunicare molto in maniera diversa, dal reportage al racconto dell’adolescenza.
Come a tutti i fotografi che intervisto vorrei chiederle di scegliere dal suo archivio un singolo scatto che sia quello cui lei tiene di più e di raccontarci i motivi per cui esso possa rappresentare la sua foto preferita, dove l’ha scattata, quando e perché. Può essere uno scatto qualsiasi, non per forza di cose attinente al volume di cui stiamo parlando.
Una foto a cui tengo molto è proprio quella che ho messo sulla copertina di Diamonds. Lui si chiama Costantino (diceva che fa rima con cretino), l’ho incontrato a Torino in un parco non molto lontano da casa mia. Ovviamente la cosa che mi colpì subito fu il grosso ematoma sul viso. Lo fermai e subito mi chiese se ero un poliziotto. Dopo qualche minuto, eravamo seduti su una panchina a parlare della sua vita in Romania e del mito Ceausescu. Finita la chiacchierata mi raccontò come si fece male: cadendo dal tram, disse.
Grazie mille Steve, complimenti per il suo lavoro fotografico, oltre che per ‘Diamonds’.
Edizione del 02/2021 di 89books – www.89books.com
Introduzione di Guido Costa
Design di Steve Panariti
108 pagine, 21 x 30 cm, 29 foto a colori, 71 foto in bianconero
Copertina flessibile, stampa digitale
ISBN 979-12-80423-00-9
Sito Web www.stevepanariti.com
Instagram www.instagram.com/steve_panariti/ – @steve_panariti
Patrizia Galia: “Bianca come il sale, Nera come la notte dei Riti.”
Pio Andrea Peri: “Il paesaggio, i droni, la Sicilia. Come si deve.” (a breve su Fotografia.it)
Steve Panariti: “Ritratti antigraziosi fatti di periferia e di fotografia.”