Ecco l’intervista a Nicola Spadafranca, il quale ha seguito con l’occhio lucido ed affilato della luce radente su pellicola bianconero le vicende dei braccianti agricoli immigrati in Puglia. Ne è scaturito un progetto emotivamente coinvolgente dal valore umano dirompente. Uno dei rari casi in cui tutto quello che viene scritto è comunque un di più.
I volti di chi possiede solo un viaggio.
Ho conosciuto il lavoro di Nicola Spadafranca, grazie all’amica Roberta Pastore, proprio a partire dagli scatti appartenenti al progetto ‘Alla fine del viaggio’. Sono quelli che pubblichiamo in occasione di questa intervista a Nicola Spadafranca all’autore, tutti afferenti ad un viaggio-racconto che non è solo quello dei personaggi ritratti bensì la ricerca fotografica stessa di Spadafranca all’interno di una società nascosta dalla società. I territori che fanno da sfondo al viaggio sono quelli di Manfredonia, di Foggia, di San Severo, Di Orta Nova. La stagione è quella estiva, quella del raccolto legato ormai indissolubilmente al settore agroalimentare radicato in queste terre: asparagi, pomodori, uva, carciofi. Poi verso la Calabria, per i mandarini e le arance.
Questo è però solamente il contesto, dato che il fulcro del progetto sono le vite e le vicende di coloro che giungono in Italia non solo in cerca di occupazione bensì di prospettive, forse di speranze, di certo di un futuro per essi stessi oltre che per i figli che li accompagnano. Sono ragazzi e bambini in età scolare di cui ignoriamo l’esistenza, talvolta ancor più di quella dei loro genitori. Li ritroviamo nei campi, nelle tende, nei cortili e infine negli scatti di Spadafranca. Di etnie le più disparate e di provenienza discontinua tra la regione dei Balcani sino all’Africa centrale. Molti vengono dal nord del continente africano.
Il progetto è prevalentemente orientato al ritratto, sebbene non manchino scene di vita quotidiana, di lavoro, di preghiera, di accudimento. L’autore non li elenca solamente, come molti altri farebbero o hanno fatto, ma ce li racconta facendoli esprimere con i propri sguardi. Ed i protagonisti ci parlano mentre noi guardiamo loro, fotografati, con volti che dicono molto. Bastano 4 scatti ed i dubbi evaporano da questioni banalmente tecniche (‘scatta su pellicola?’, ‘perchè il bianconero?’) a tutt’altro livello. Chi sono lui o lei? Quale realtà hanno lasciato e quale stanno vivendo ora? C’è posto per la felicità in queste persone? Il ritratto come filo conduttore della narrazione è complesso da tenere ma Spadafranca vi riesce in modo egregio, senza stereotipi, anzi rivelando un mondo ignoto dal suo interno. L’eleganza è quella di un autore di altri tempi, uno W. Eugene Smith odierno ma con il medesimo carico di umanesimo e empatia nei confronti delle vite raccontate.
Lo stile acuto, reso duro anche dal bianconero analogico, tecnicamente sopraffino. Luci complicate, scelta con esperienza e capacità non di poco conto, che mettono l’accento su termini già presenti nella narrazione. Non ci sono sbavature nel racconto e rinunciare a mostrare ogni singolo fotogramma tra quelli che lo compongono è complicato. Resta infine un unico sospetto: si può uscire intatti da un’esperienza di narrazione così intensa? Lo abbiamo chiesto all’autore. EGT.
Abbiamo finalmente occasione di ospitare sulle pagine di Tutti Fotografi, dopo averlo potuto osservare nel corso del tempo sempre e solo in parte o per estratti, il progetto fotografico ‘Alla fine del viaggio’ di Nicola Spadafranca. Ci può raccontare in che cosa consiste e da dove è nato lo spunto ad occuparsene? Chi sono le persone che popolano questi fotogrammi così carichi di… lavoro?
‘Alla fine del viaggio’ è un reportage realizzato dal 2006 al 2008 sulle problematiche del lavoro degli immigrati all’interno del territorio compreso tra le città di Foggia, San Severo, Rignano Garganico, Manfredonia e la sua frazione di Borgo Mezzanone.
Il reportage è nato quasi per caso. In realtà pensavo di fotografare il mio territorio. Volevo analizzarne il paesaggio e la sua evoluzione. Il paesaggio è il territorio dell’uomo, è il prodotto del suo lavoro e del suo passaggio. Sicchè, una domenica mattina mentre fotografavo un crocifisso affrescato sulla parete di un casolare, coperto in parte da fichi d’india, con alle spalle un grande capannone di una cooperativa agricola, è passata una Lada con targa bulgara, perfettamente identica alla Fiat 124 di mio nonno, anche nel colore. Era piena di gente, l’ho inseguita come un richiamo: un déjà-vu.
Di lì in poi, ho iniziato a percepire una presenza sempre maggiore di “nuovi” abitanti in un territorio che era cambiato rapidamente. Ho iniziato a fare delle mappe, e a studiare il territorio in base alla nazionalità dei nuovi abitanti: rumeni, bulgari, africani.
Dopo l’estate, il periodo in cui si ha la massima concentrazione d’immigrati nel mio territorio per via della raccolta del pomodoro, “L’Espresso” pubblica un articolo a firma di Fabrizio Gatti: “io schiavo in Puglia”.
Un articolo sconcertante corredato da foto quasi di circostanza.
L’abbinamento mi apparve stridente, mentre i fatti narrati sembravano realtà lontanissime, impossibili. Mi sono chiesto perché avessero utilizzato comunque delle fotografie e non si limitassero a narrare solo con le parole la drammaticità di quanto accadeva sulla “mia” terra.
E’ noto che una delle caratteristiche del linguaggio visivo, ovverossia della fotografia, è la sua potenza evocativa rispetto alle parole. Gli orrori dell’Arcipelago Gulag (Solzenicyn) sono stati descritti magistralmente da pagine e pagine di carta stampata, scritte, tra l’altro, da un premio Nobel per la letteratura. Ciò nonostante, non essendo mai stati fotografati, appaiono alla nostra mente come circostanze lontane, confuse. Gli incubi di Auschwitz o Dachau, ovverosia le immagini degli orrori indescrivibili perpetrati nei campi di concentramento, sono, al contrario, incise nella nostra memoria. Rappresentano la dolorosa testimonianza di ciò che accadde in quei luoghi.
Mi sono chiesto se “L’uomo pensa per immagini” (A. Camus).
Se così fosse, ho creduto che il mio territorio avesse bisogno d’immagini, che dovesse essere raccontato per immagini. Ho così deciso di dare visibilità a volti sconosciuti e nascosti, per rispondere a cosa potesse voler dire, nel nostro tempo, territorio, appartenere a un territorio, per riflettere sul senso di termini come coesione (sociale), inclusione (sociale) e quale significato potessero assumere al cospetto di quei volti.
Perché il volto è la nostra parte più indifesa, la più esposta, ma anche la più rivelatrice.
Le persone che ho fotografato sono i ‘nomadi della modernità’. Dopo la campagna del pomodoro molti tornano a casa in Romania, in Bulgaria, altri si spostano verso la Calabria per la raccolta dei mandarini e delle arance.
In particolare ad osservare l’intensità e la schiettezza di ‘Alla fine del viaggio’, il lavoro sulla tragedia dei migranti stagionali in Puglia, si direbbe che la sua fotografia sia fortemente orientata alla narrazione giornalistica. E’ un genere che ha sempre frequentato o ha trascorsi, piuttosto che attuali, in altri ambiti fotografici?
Dopo la laurea in economia conseguita a Bologna, sono tornato a Manfredonia, dove, come “fotografo”, sono stato chiamato a far parte della redazione di un settimanale locale inserito nel quotidiano nazionale “AVVENIRE”. Incarico pro bono, ma intensissimo. Parliamo del 1990, o giù di lì. In redazione discutevamo degli articoli, poi io avevo il compito di farne una sintesi fotografica, gli altri di scrivere gli articoli. In quegli anni ho iniziato a conoscere e a far conoscere la realtà degli immigrati presenti nel territorio della Capitanata con fotografie sui luoghi di aggregazione e a stretto contatto con loro.
Infatti non avevo mai realizzato un reportage così compiuto. Inoltre, con la stessa redazione, ho fotografato abbazie, chiese rupestri, case di campagna, riserve naturalistiche, per realizzare supplementi estivi, chiamati “Percorsi dell’Estate”, composti da 20/48 pagine, che tracciavano originali percorsi artistici per viaggiatori e turisti che volessero visitare il Gargano meno reclamizzato. Nello stesso periodo ero affascinato dal paesaggio urbano e dai suoi mutamenti, dai cambiamenti legati al mondo della pesca e delle attività portuali.
Da dove viene la scelta del bianconero e, nello specifico, della pellicola per questo tipo di documentazione? E’ indubbio che l’estetica dell’analogico e del bianconero si adattano ottimamente ai temi affrontati…
Il bianco e il nero sono i miei personalissimi colori della fotografia. Scatto solo in bianco e nero, perché ne apprezzo la sintesi narrativa. Uso la pellicola, perché è quello che so usare meglio.
Come è cresciuto fotograficamente? Come ha iniziato e in che direzione punta oggi? Ci può raccontare quelle che sono oggi le attrezzature fotografiche che predilige utilizzare sul campo e come è solito trattare i materiali ripresi? Che pellicola usa di preferenza?
All’età di otto anni ho ricevuto in regalo la mia prima fotocamera (fortemente voluta). Ed ero già stato in una camera oscura per osservare il processo di sviluppo delle pellicole bianco e nero e di stampa con l’ingranditore. Negli anni la passione è cresciuta. Ho scelto Bologna per gli studi universitari, ed è lì che ho conosciuto e frequentato il fotografo Tino Carretto, dal quale ho potuto apprendere molto. Il resto lo hanno fatto le mostre dei maestri della fotografia e l’acquisto dei loro libri.
Nel 2010, dopo la pubblicazione del libro “Alla fine del viaggio” mi sono concentrato sulla documentazione delle periferie, e, in particolare, sul quartiere Tamburi di Taranto, senza voler animare alcun principio di autorità, di giudizio verso la città, verso le periferie, ma solo per condividere con gli stessi abitanti i loro timori, le loro speranze, i loro sogni.
Dal 2015 le mie opere hanno iniziato a richiedere un maggior tempo di incubazione, perché la mia attenzione si è allontanata sempre più dal reportage per essere attratta da una visione sempre più rarefatta, e sempre meno ispirata dal “reale”. Procedendo per sottrazione, ho iniziato a inseguire l’utopia di fotografare il “nulla”, ovvero la mancanza di realtà o l’assenza nel “reale” di qualcosa di rilevante o di significativo. Ho iniziato a pensare che un’immagine debba rendere visibile, attraverso una sintesi (la mia), solo la trama del reale, ma non per distaccarsene, bensì per entrare in rapporto con esso, rendendolo soggettivo, interattivo, coinvolgente, così da fare nascere in noi sensazioni, emozioni, prese di posizione libere. Questa è la mia nuova “frontiera”.
In merito all’attrezzatura, ho alcuni corpi macchina a telemetro, una Leica M6, una Leica M7 per il 35mm, e una Mamiya 7 per il medio formato. Con le Leica uso prevalentemente il 28mm e il 50 mm, oppure il 21mm e il 35mm, porto con me sempre due corpi macchina. La Mamiya mi piace molto usarla con il suo 50 mm e l’80mm. Ho anche delle reflex Contax e Nikon. Sulla Contax monto il Planar 60/2,8 Makro e il Distagon 25/2,8. Sulla Nikon uso prevalentemente il 28/2, anche se ho altre ottiche. Nella mia borsa non manca mai un 21mm o un 18mm, a seconda dei casi, una sorta di “coperta di Linus”.
Le mie pellicole di riferimento sono la Kodak TX 400, che sviluppo con il rivelatore Kodak D-76, e la Kodak TMax 400 che espongo a 1600, sviluppandola con il rivelatore Kodak X-Tol. Curo personalmente sia il processo di sviluppo, sia quello di stampa.
Ha delle situazioni, delle luci, delle circostanze in cui preferisce calarsi o verso cui si sente attratto poiché vi riconosce un potenziale interesse fotografico piuttosto che narrativo o si trova bene in qualsiasi circostanza?
Preferisco la luce radente. Scatto solo se ho qualcosa da dire, se riconosco una tensione emotiva. Non credo di trovarmi bene in qualsiasi circostanza, anzi, credo di essere molto selettivo.
Come si è rapportato ai personaggi che popolano ‘Alla fine del viaggio’? Che tipo di interazione c’è stata durante gli scatti tra di voi? Quali le maggiori difficoltà, anche considerando il contesto al limite in cui questi scatti si sono svolti?
Ho creduto di dover condurre tutto con il massimo rispetto. Al loro posto era così che avrei voluto essere considerato io. Ho passato più di sei mesi a farmi accettare senza scattare una foto. Ho cercato di partecipare ai loro discorsi, altre volte ho provato a immaginare il senso dei loro silenzi. A volte mi hanno raccontato la loro storia, altre volte ho potuto solo intuirla. Infinite storie di sofferenza e delusione, ma anche di fiducia nel futuro e speranza. Mi hanno sempre chiesto se fossi un poliziotto, un carabiniere o un giornalista. Paradossalmente, il fatto che io fotografassi per un mio interesse personale, per una mia passione, per un senso di appartenenza al territorio è stata la cosa più difficile da comunicare, da trasmettere. Non pensavano potessere essere vero. Come dargli torto? Dopo sei mesi, passando a trovarli ogni fine settimana, in occasione delle festività, durante le vacanze, hanno avuto modo di constatare che non succedeva nulla dopo il mio passaggio. In altre parole, non è mai arrivata né la Polizia, né i Carabinieri, per sgomberare i vari campi, i casolari occupati, né tanto meno la stampa a denunciare ciò che accadeva. Così hanno iniziato a essere meno diffidenti nei miei confronti, e ad apprezzare la mia “folle” (parole loro) curiosità nel trascorrere il mio tempo con loro.
Quanto tempo è durato il progetto di ripresa? Che mole di materiale ha raccolto e come si è svolta la fase di selezione piuttosto che di scarto?
In due anni ho scattato 100 rulli di pellicola, 3600 scatti, “viaggiando” per 7000 km all’interno del territorio compreso tra Manfredonia, Foggia, San Severo, Orta Nova.
Ho scelto gli scatti che potessero tracciare il mio “viaggio” per poi fare un’ulteriore sintesi al fine di narrare tutto ciò che avevo vissuto secondo il filo logico che avevo in mente. Quindi, alla fine su 3600 scatti ho composto un corpus fotografico di circa 50 fotografie, non è stato difficile, ma ci ho messo molto tempo, circa un anno, ero ancora troppo coinvolto.
La luce è, assieme alle persone ritratte con la loro espressività, una grande protagonista dei fotogrammi componenti questo progetto. Si tratta di situazioni spontanee, riconosciute, o ha avuto la possibilità di intervenire e di gestire in qualche modo i soggetti coinvolti e la situazione di scatto?
Ho sempre chiesto se potevo fotografare, e ho fotografato sempre dopo aver ottenuto il loro consenso per una questione di profondo rispetto verso la persona ritratta. In alcuni casi ho rinunciato a fotografare per pudore, per lasciare integra la loro dignità, e questo lo hanno apprezzato molto. In cuor mio credo che le fotografie migliori sono quelle che non ho realizzato.
Non sono mai intervenuto per gestire il soggetto, non mi interessava. Io dovevo cercare di documentare tutto quello che la strada mi avesse dato modo di conoscere, di incontrare, senza pregiudizi, senza alcuna idea preconcetta, con umiltà, senza un limite di tempo, solo quello necessario al ‘viaggio’. Perché, vede in questo mio personalissimo “viaggio” fotografico un ruolo molto importante lo hanno esercitato i miei ricordi. Ho vissuto quei luoghi da bambino, alcuni giorni d’estate li trascorrevo con i miei nonni materni in campagna. A luglio si trebbiava. Mia nonna preparava il pranzo per tutti. Sempre nelle zone fotografate, ho raccolto pomodori per guadagnare quanto necessario ad andare in campeggio, erano gli anni del Liceo. Questi ricordi non mi hanno mai dato modo di condividere la descrizione che della mia terra hanno fatto alcune testate giornalistiche in questi ultimi anni. In fondo, ognuno trova quello che cerca. Non dico che quello che avessero scritto non fosse vero, ma dipingere un territorio solo in quel modo non ho mai creduto fosse giusto. Non potevano esserci solo sfruttamenti e soprusi nelle nostre terre. E’ questo quello che dovevo mostrare. Innanzitutto a me stesso, poi agli altri.
Una domanda ‘collaterale’ che chi scatta in bianconero da fotografo amatoriale certamente si porrà: quanto le sue immagini sono create in ripresa e quanto in camera oscura, piuttosto che in seguito alla scansione?
Dopo anni di camera oscura ho stabilito un metodo di lavoro che restituisce quello che voglio ottenere in termini di stampa. Quindi, molto dipende dalla pellicola e da come si sviluppa. Poi io apprezzo molto la grana, e la TX 400 o la Tmax 400 esposta a 1600 in questo mi aiutano molto. Il resto viene da se, basta saper stampare bene, e avere molta pazienza. In merito alle scansioni, le foto che potete osservare sono state acquisite dalle stampe, non dal negativo, quindi nessun intervento digitale. Le stampe sono addirittura migliori, qualcosa nella acquisizione si perde sempre. Al contempo, sottolineo di non nutrire alcuna preclusione verso il digitale.
Quali riscontri di diffusione e di pubblico ha avuto ‘Alla fine del viaggio’? E’ riuscito a valicare i confini nazionali? Ci può accennare a qualche altro suo progetto in corso piuttosto che concluso? Per esempio a ‘Squame’.
Del libro “Alla fine del Viaggio” hanno scritto in molti e su diverse riviste. In particolare, Alessandro Leogrande (Taranto, 20 maggio 1977 – Roma, 26 novembre 2017), uno dei migliori scrittori, giornalisti e intellettuali italiani della sua generazione, purtroppo morto prematuramente, in un suo lungo articolo, che occupava l’intera pagina culturale del Corriere del Sud (periodico di formazione e informazione culturale, distribuito all’interno del Corriere della Sera), ha descritto le mie fotografie con queste parole: «Sono foto di fatica e di sudore, di sfruttamento e di fame. Producono sovente un cortocircuito temporale. GIi uomini e le donne ritratti potrebbero tranquillamente appartenere ad altre epoche storiche, ad altri luoghi. Possono ricordare, nel loro essere solcati dal lavoro e dallo sfinimento i cafoni pugliesi del secolo scorso. Oppure possono ugualmente ricordare – con i Ioro zigomi spigolosi, Ie loro guance scavate, i loro occhi accesi dallo sforzo fisico – i contadini poveri del Sud degli Stati Uniti ritratti da Walker Evans durante la Grande Depressione». È il caso sottolineare che le foto di Walker Evans hanno accompagnato uno dei più straordinari reportage che siano mai stati scritti sulla condizione rurale: “Sia lode ora a uomini di fama” di James Agee.
Ho ricevuto, inoltre, apprezzamenti lusinghieri da Goffredo Fofi e Daniele Protti, rispettivamente direttore de “Lo Straniero” e “L’Europeo”.
Un lungo servizio sulla mostra è andato poi in onda all’interno del TG3 Puglia, e su Tele Radio Padre Pio, mentre una sintesi del corpus fotografico è stata pubblicata su La Repubblica BARI.it
La professoressa Maria Grazia Di Tullo, docente presso l’Università LUMSA di Roma, ha inserito nel libro “Media Attivi e Solidali” da lei curato una scheda sul libro “Alla fine del viaggio” come esempio tangibile del fatto che i media possono educare in modo attivo e solidale.
Gli apprezzamenti e gli attestati di stima ricevuti per quelle foto sono così numerosi e lusinghieri che mi risulta difficile ricordarli tutti.
Ho anche ricevuto la proposta di esporre presso l’Istituto di cultura di Sofia e di Bucarest. Una proposta molto lusinghiera, che ho ritenuto di non poter accettare per impegni di lavoro.
Il 12 settembre 2020, ho esposto “Squame” un “lavoro” fotografico che si propone di indagare se un rifiuto, uno scarto, quindi un oggetto senza una funzione propria, senza un luogo proprio (giacché usato, consumato, oppure semplicemente abbandonato, perché superfluo, imperfetto) ha un potenziale estetico e può apparire “bello” se incontra la nostra percezione.
Mi rimane da concludere la mia ricerca sulle periferie.
Come si esce, personalmente, da un’esperienza di scatto così reale ed intensa? Come ci si sente ad osservare una realtà di questo tipo stando comunque dall’altra parte dell’obiettivo?
Infine se ne esce profondamente cambiati ed emotivamente coinvolti. Ancora oggi, dopo oltre dieci anni dall’uscita del libro, quelle foto hanno ancora il potere di emozionarmi, se penso a tutto quello che ho vissuto.
Uno degli elementi che colpiscono nello scorrere i suoi scatti è dato dal fatto che il fulcro di ciò che vi osserviamo è comunque sempre ‘la vita’. Come se alla fine ci fosse salda una fiducia nonostante il contesto di sfruttamento cui queste persone sono sottoposte. E’ voluta questa visione? Si tratta di un modo estremamente ‘elegante’, mi perdoni il termine, di approcciare con la massima dignità ed empatia la fotografia sociale e, più che umana, umanistica.
Le mie fotografie nascono da una forte irrequietezza, da un insanabile rifiuto verso gli schemi, ma soprattutto dal voler capire le cose come stavano. Quindi, ignoto fra gente ignota, ho iniziato a viaggiare (nel vero senso della parola) nel mio territorio in luoghi a me vicini, ma poco conosciuti, anzi del tutto sconosciuti, perché ho percorso ogni strada che incrociavo senza sapere effettivamente dove portava. La meta non era un luogo, ma il viaggio in se.
Alla fine ho scoperto di aver fotografato quello che di me sono riuscito a offrire all’”altro”, per quello che l’”altro” ha potuto offrire a me. Poi ognuno per la sua strada. Se lei in questo ha visto come fulcro la “vita” mi fa molto piacere e ne sono lusingato.
Da parte mia, posso solo dirle di aver avuto la presunzione di fotografare quando sul terreno mi è sembrato di vedere la mia anima, più grande della mia ombra…
[ Nicola Spadafanca ha risposto alle domande di EGT nel mese di dicembre 2020 ]