Nasce una nuova rubrica, Quartiere, dedicata alla Street Photography. Questa storia che pubblichiamo è un pugno nello stomaco, ma non sarà sempre così; vogliamo raccontare la vita del quartiere, di ogni quartiere, in tutte la sue sfumature.
Davide Cerullo è stato uno dei ragazzi di Scampia e le sue fotografie non hanno bisogno di commento. Questa intervista è importante per capire come si entra e come si può uscire da questo mondo di violenza.
Le tue fotografie non possono prescindere dal tuo passato, ce ne parli?
E’ una parola… Non è affatto facile riassumerlo in breve, comunque ci provo. Comincio col dire che sono nato a Napoli nel 1974 e sono cresciuto a Scampia, la più grande piazza di spaccio di droga d’Europa, e che sin da piccolo ho fatto parte di quel mondo. Tante volte non riuscivamo a portare in tavola neanche il cibo più povero. La rabbia per le condizioni in cui versavamo, io mia madre e i miei 13 fratelli, mentre ragazzi più grandi del quartiere guadagnavano un pacco di soldi, mi spinse a diventare anch’io un dispensatore di morte. Prima di impugnare la macchina fotografica ho impugnato tante pistole, dispensatrici di morte come la droga; fortunatamente non mi era ancora arrivata la chiamata “dello zio” con la richiesta di utilizzarla.
Era un tuo parente?
No. Lo zio era il boss, il nostro boss, che tutti noi veneravamo. Alla fine era considerato più di un parente. Un padre. E la maggior parte di noi un padre non l’aveva più. Capisci? La mia prima pistola l’ho ricevuta che avevo 14 anni e il giorno dopo come rito di iniziazione mi portarono all’obitorio a vedere un giovane affiliato ucciso da un colpo che gli aveva attraversato il cranio.
Cosa hai provato?
Capii che esisteva qualcosa di peggio della solitudine e della miseria. Ma non potevo urlare, piangere e andare via come un ragazzino. Mi era proibito. Poi negli anni divenni… fino a quando non mi hanno sparato. Avevo 17 anni: mi crivellarono di colpi e, pensando di aver compiuto il “pezzo”, se ne andarono.
Intendi l’agguato..
Si, quella specie di commissione. Mi sono fatto 40 giorni d’ospedale e non so come sono riuscito a sopravvivere. Quando mi dimisero l’unica cosa che desideravo era vendicarmi, volevo ammazzarli. Sparar loro in faccia. Li conoscevo, erano venuti a volto scoperto. Ma ci pensarono altri al posto mio: avevano sbagliato e si erano tenuto dei soldi. Vennero ammazzati.
Dopo alcuni anni la mia storia è cambiata.
Cosa ti ha fatto cambiare vita? E cosa ti è rimasto addosso della tua vita precedente?
E´ stato l’incontro con il potere terapeutico della parola ad attivare in me il cambiamento. Avevo 18 anni ed ero detenuto nel carcere di Poggioreale, nel padiglione Avellino, stanza 31, insieme ad altre 25 persone. Al rientro dall’ora d’aria trovai una bibbia sulla mia branda. Non mi sono mai chiesto come fosse giunta li. Frettolosamente, perché mi dava fastidio che mi vedessero leggere, lasciai scorrere i fogli tra le dita e verso la fine lessi tre volte il mio nome: “Davide, Davide, Davide”. Era un imperativo categorico! Strappai le due pagine e me le leggevo quando riuscivo a non farmi vedere da nessuno. Quel giorno non ho fatto altro che leggere e rileggere quelle pagine: iniziarono a scardinare la mia forza criminale, mi misero in confusione, indebolirono le mie difese.
Una volta uscito dal carcere continuai la mia solita vita, spacciare e guadagnare quasi mille euro al giorno, fino a quando mi apparvero due angeli: Suora Monica Redolfi e il pittore Sergio Bardellino che tentarono di redimermi invitandomi più volte a casa loro. Alla fine cedetti e cominciai a frequentarli. La loro infinita bontà mi aprì gli occhi e il cuore. Mi fecero conoscere la poesia di vari autori e cominciai a nutrirmi la mente e l’anima: iniziai a capire chi realmente fossi e quello che assurdamente ero stato.
Mi chiedi “cosa mi porti ancora addosso”: tutto! Il mio passato non va via. Il male resta, ma faccio e farò il possibile per compensarlo.
Come sappiamo, sei autore di pubblicazioni di prosa e di poesia ed Erri De Luca scrive di te: “… ci sono le sue fotografie, perché Davide Cerullo scrive anche con quelle, bianco su nero, nero su bianco. Stanno nel suo D.N.A. come le ali sospese sopra una corrente ascensionale sopra un vento”. Come mai hai scelto anche la fotografia come strumento?
La fotografia è per me un’urgenza, mi permette di esprimere cose che vogliono venire fuori. Forse cerco inconsciamente di liberarle nella loro immediatezza o interpretarle. E’ stata anche la sfida con me stesso.
Davide Cerullo è uno scrittore e un fotografo che ha avuto un passato molto difficile. E’ autore di un libro a dire poco coinvolgente, edito da Anima Mundi, con testi di Christian Bobin, Erri De Luca, Ernest Pignon-Ernest, Patrick Zachmann, e soprattutto con le sue fotografie randagie, che sbattono contro lo sguardo di chi le osserva.
Aggirarsi per Scampia con una vistosa macchina fotografica: presumo sia stato più difficile che con un bazooka! Tu sei del posto, ma… Come hai potuto fotografare indisturbato? Con che approccio hai avvicinato i tuoi soggetti?
Non ho mai avuto nessun problema a girare per Scampia con la macchina fotografica. Ovviamente un fotografo che intende fare un lavoro del genere deve innanzitutto avere educazione e sensibilità: non bisogna mai essere spocchiosi o prevaricatori. Ho potuto coinvolgere i miei soggetti con facilità perché mi sono relazionato con loro con garbo, come un fratello maggiore e mentre parlavamo a volte scattavo. Avevano anche piacere che io li fotografassi. E oltre a parlare ho camminato tanto; per fare questo lavoro bisogna consumare le suole delle scarpe!
Due delle tue foto sono state utilizzate come copertina di un racconto di Roberto Saviano.
L’editore Gallimard che ha pubblicato il mio libro tradotto in francese: “Visages de Scampia”, mi disse, circa tre anni fa, che alcune delle mie foto potevano andare bene anche per il libro che stava per uscire: “Piranhas” di Roberto Saviano. Non ho mi avuto un contatto diretto, ma so che sono piaciute moltissimo: due sono state scelte per la copertina.
Siamo tutti accomunati dall’essere dei “volti verso l’infinito” come scriveva Emmanuel Levinas. In questo tuo lavoro hai fatto una scelta precisa: rappresentare, anzi, presentare questo luogo difficile tramite i bambini che ci vivono. Perché? Cosa dicono i loro volti? Cosa chiedono i loro occhi?
In realtà cerco quel bambino che io ero, per avvisarlo, per fargli cambiare strada. Sono in costante dialogo con lui. Ci vogliamo bene. E comunque i giovani devono essere la nostra impellenza, noi tutti abbiamo un grande dovere nei loro confronti. I loro volti dicono: “siamo esseri umani”, come me, come te, come tutti. Ripetiamo sempre le stesse cose, ma è giusto farlo, ci vuole empatia.
Cosa chiedono i loro occhi? Quello che chiedono tutti i bambini: il bene, l’affetto. Ma con maggiore forza.
Data la precarietà delle giovani vite che hai fotografato, hai mai esitato se pubblicare o meno una immagine, hai mai avuto un ripensamento sul tuo lavoro?
No, assolutamente. Mi sento uno strumento, un tramite, e non esprimo nessun giudizio moralistico. Sul mio lavoro invece i ripensamenti sono all’ordine del giorno, ma sempre per farlo sempre meglio: trasmettere la crudezza e la spietatezza della realtà senza giudizi morali. Non ci si può tirare indietro davanti alla realtà.
Concordo pienamente. Parlaci di alcuni momenti particolari, prima e dopo lo scatto, che ti hanno lasciato qualcosa di importante, di intimo e profondo..
Mi viene in mente un ragazzino che all’epoca, ti parlo di oltre dieci anni fa, avrà avuto una decina di anni. Stavo rientrando a casa con la mia inseparabile macchina fotografica, quando mi accorgo che mi stava seguendo già da un po’. All’improvviso mi si para davanti e mi punta una pistola giocattolo: voleva essere fotografato. E io lo fotografai.
Sapevo che quel ragazzino non avrebbe avuto speranze, lo sentivo: aveva il freddo dentro. Ho saputo che ora sta scontando 19 anni di carcere, e oggi ne ha appena 24.
Quali sono i tuoi maestri imprescindibili?
Christian Bobin per la poesia che riesce a superare anche le parole. Pasolini perché resta per tutti un maestro ancora presente e Alda Merini, che mi ha dato la forza per capire le foglie. Ma più di tutti, quello che è costantemente in dialogo con me è Aleksandrovič Brodskij.
Perché?
Per la verità.
Cosa intendi?
Per chi legge poesia è più difficile essere sconfitti.
E nella fotografia?
Sicuramente Diane Arbus, per averci fatto capire che tutte le persone e le cose, a loro modo, sono interessanti.
Se tu potessi parlare al lettore un attimo prima che apra il tuo libro, cosa gli diresti?
Di fare attenzione. Di non lasciarsi guidare dal pregiudizio. Gli direi: “Sappi che ogni fotografia è uno specchio, quindi fermati e osservati con cura”.
Dall’inizio della tua carriera hai ricevuto molte interviste. C’è una domanda che avresti voluto ricevere e che non ti è mai stata fatta?
Si. Se sono felice. Questa l’avrei desiderata. E non me l’hai fatta neanche tu.
Mi devi perdonare..
Non è nulla! Comunque la mia risposta è no: non sono felice perché ci sono troppo ingiustizie, perché troppi bambini sono lasciati a marcire come degli alimenti scaduti. E la loro mancanza di felicità, caro Giuseppe, sarà l’infelicità del nostro futuro, se non facciamo nulla per elevarli a persone.
Ho un’ultima piccola richiesta: fammi tu una domanda, a mio rischio e pericolo..
Lasciami pensare… cos’è l’amore per te?
Caro Davide, non so se è una sola cosa, e quale, ma sono certo che è la nostra più grande eredità.
Intervista di: Giuseppe Ferraina
L’intervista è il primo tassello di una serie di iniziative che abbiamo avviato insieme a Milano Sunday Photo per coinvolgere i lettori, invitandoli a mandarci i loro materiali e a descriverci i loro progetti. Per poter raccontare il vostro quartiere e mostrarci la vostra streetphotography, mandateci una mail all’indirizzo: giuseppe.ferraina@fotografia.it