Umberto Fara ci porta nel mistero del Carnevale sardo, un progetto facente parte della più ampia ricerca di Codex Sardinia. Con la collaborazione di Roberta Pastore.
Mi giunge con sorprendente quanto marcato impatto estetico il lavoro fotografico in bianconero di Umberto Fara sul Carnevale in Sardegna. Una veloce visita ai riferimenti online che il fotografo ha delineato per presentarsi (www.umbertofaraphotography.com) sono sufficienti per convincermi del fatto che questo autore sia un egregio fautore del reportage più puro prestato (anche) alla fotografia ‘di strada’. La dichiarata militanza in collettivi Street, oggigiorno uno dei più comuni e proficui accessi al mondo della fotografia ‘di narrazione’ per chi inizia a scattare, porta a fotogrammi maturi che seguono il filo descrittivo tipico del fare fotogiornalismo, di una narrazione estesa, impegnata, prolungata e assolutamente lucida nel percorrere, in questo caso, il tema del Carnevale sardo.
Traiettorie ulteriori nella ricerca di Fara (qui non presentate) puntano con medesima cifra stilistica in direzione di una molteplicità di aspetti appartenenti alla vita quotidiana nella geografia perlustrata dall’autore. Egli però trasfigura scene e momenti comuni così come altri del tutto eccezionali grazie ad un bianconero denso e marcato ed a tecniche di noto impiego tanto Street quanto reportagistico come lo slow-synch, il fill-in, il mosso, il panning, il controluce e la silhouette estremi. Con l’essere umano sempre al centro. Sono scatti che pesano, fatti di un bianconero denso e marcato. I soggetti che l’autore sceglie sono perfetti per questo stile e si lasciano raccontare in questa commistione di forma e sostanza riservando a chi guarda una continua fonte di sorpresa ed incanto.
Nel descrivere il progetto sul Carnevale sardo tratto da Codex Sardinia ci siamo fatti aiutare da Roberta Pastore (Street Photography in the World) in virtù della vicinanza e della conoscenza di molti risvolti del lavoro proprio di Umberto Fara. EGT.
Su Umberto Fara, di Roberta Pastore.
Umberto Fara nasce a Oristano nel 1972, in un’intervista rilasciata per Street Photography in the World nel novembre 2018 afferma “Non posso vivere senza fotografia, penso che sia il modo migliore per parlare di me stesso e di tutto ciò che mi circonda”.
Il percorso fotografico di Fara inizia per caso nel 2011, fotografando per divertimento alcuni paesaggi nei pressi della sua abitazione con una piccola bridge. Da allora la sua passione per la fotografia cresce in maniera esponenziale e con essa il percorso di approfondimento tecnico e strumentale. L’interesse di Umberto si concentra quindi sulla fotografia di reportage, soprattutto attorno alla sua terra, la Sardegna, terra ricca di eventi legati a tradizione e folklore.
In questi anni raccoglie un corposo materiale reportagistico focalizzato sulla stagione del Carnevale fino ai riti della Settimana Santa, con la costante necessità di inserire l’elemento umano all’interno dei suoi scatti. Messa da parte la fotografia di paesaggio, evolve dal reportage verso la fotografia di strada. Umberto predilige l’uso del bianco e nero nella maggior parte dei suoi scatti, pur non trascurando completamente il colore. La sua formazione è quella di un autodidatta: “Sono un grande divoratore di immagini, conoscere il lavoro, il modo di scattare di altri autori, che non devono necessariamente essere famosi, mi dona lo spunto per cercare un mio stile personale. Apprezzo molti fotografi e da ciascuno di essi provo a cogliere qualcosa: adoro il bianco e nero di Moriyama e le sue atmosfere quasi oscure, la composizione di Webb e l’uso della luce di Gus Powell. Di recente ho scoperto Chris Killip attraverso il lavoro ‘Here coming Everyone’ nel quale racconta attraverso immagini ricche di romanticismo i pellegrinaggi e la devozione religiosa nell’Irlanda rurale. Anche ‘Isola della Salvezza’ di Francesco Comello mi ha profondamente colpito; le sue fotografie mi hanno catapultato in quel piccolo mondo con una forza impressionante.”.
Per Fara scattare in strada è come entrare nella sfera emotiva delle persone, ed è per questo che utilizza un obiettivo a focale fissa (18mm e 27mm) il quale lo spinge ad avvicinarsi il più possibile ai soggetti che vuole catturare cercando al contempo di essere discreto, con un corredo fotografico che va dalle piccole fotocamere mirrorless di Fuji ad una Ricoh Gr II; spesso ricorrendo a ‘trucchi’, come lo scatto intuitivo con la fotocamera posizionata in basso, ma anche con approccio diretto, entrando in relazione con i soggetti grazie ad un fare discreto e amabile che gli è proprio, tenendo conto della dignità della persona che si trova di fronte.
La sua resta in ogni caso una visione romantica, dal sapore antico, più simile ad un approccio classico della fotografia di strada e di reportage. Umberto Fara descrive la vita, i volti spesso segnati dal tempo e ci riconduce ad una Sardegna selvaggia, forse ferma nel tempo, tenendosi distante dai canoni (ndr: per contenuti, non per forma) della fotografia di strada moderna. “Quando guardo una scena che potrei trasformare in uno scatto, non ne percepisco immediatamente i dettagli, ma il mio occhio è più colpito dall’intera immagine. Penso che un singolo dettaglio non sia sempre sufficiente per elevare lo scatto a un livello superiore, la tecnica alla fine è l’ultima cosa che cerco. Paradossalmente, è più facile per me essere ‘elettrizzato’ da uno scatto ‘imperfetto’ ove, tuttavia, l’odore della strada si rivela più intenso.”.
La ‘fotografia di strada’ per Umberto è quindi una fotografia della memoria, quella che documenta il tempo in cui viviamo e che racconta la storia dell’umanità nelle situazioni quotidiane; quella che ti permette di essere tra la gente e di catturare momenti che resteranno unici e irripetibili.
Umberto Fara ci racconta Codex Sardinia.
Questa serie di scatti che raccontano il Carnevale in Sardegna fanno parte di un progetto ben più ampio dal titolo Codex Sardinia. Codex Sardinia è un progetto fotografico, un work in progress, che vuole raccontare in modo ampio, a 360 gradi, la Sardegna di oggi. Una terra che è fortemente legata alle tradizioni popolari, tradizioni che ancora sono profondamente radicate nelle multiformi manifestazioni che caratterizzano la cultura sarda e che ritornano anche nalla vita di tutti i giorni. Dalle manifestazioni folkloristiche con gli abiti tradizionali, passando per i riti religiosi fino ad arrivare alle messe in scena tipiche del Carnevale, con le sue riconoscibilissime maschere.
Attraverso questo percorso fotografico intendo offrire il ritratto di una terra in cui usi e costumi sono un patrimonio immateriale di cui fanno parte le pratiche, le rappresentazioni, le espressioni, il sapere e le capacità come pure gli strumenti, gli artefatti, gli oggetti, e gli spazi culturali associati che i gruppi e, in alcuni casi, anche i singoli individui riconoscono come parte integrante del loro patrimonio culturale. Ciò che è rilevante, in particolare, non è la singola manifestazione culturale in sé, ma il sapere e la conoscenza che vengono trasmessi di generazione in generazione e ricreati dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, all’interazione con la natura, alla loro storia. Il patrimonio immateriale garantisce un senso di identità e di continuità ed incoraggia il rispetto per la diversità culturale, per la creatività umana, per lo sviluppo sostenibile, oltre che il rispetto reciproco tra le comunità stesse ed i soggetti coinvolti. Queste ultime componenti rendono la Sardegna unica.
Il Carnevale sardo si discosta indubbiamente da quello conosciuto dalle grandi masse, pur con il fatto che negli ultimi anni stia attirando la curiosità di un numero sempre crescente di persone, fra cui, ovviamente, gli appassionati di fotografia, non solo dell’isola ma anche provenienti dalla penisola e dall’estero. Indubbio merito va al fatto che è in atto, in diversi paesi della Sardegna, un lavoro di riscoperta di maschere tradizionali, ognuna con le sue peculiarità; una riscoperta che avviene in alcuni casi attraverso testi in cui si fa menzione delle misteriose ‘figure mascherate’, in altri per tramite della tradizione orale, dei racconti degli anziani del paese.
Solitamente il vestiario delle maschere era costituito da pelli di animale oppure dal classico ‘Gabbanu’, una sorta di cappotto in orbace, mentre il viso talvolta era coperto da maschere lignee (chiamate Caratzas) oppure annerito con la fuliggine. Nella tradizione tali figure mascherate apparivano in un determinato periodo dell’anno, che generalmente corrisponde alla festa di Sant’Antonio (intorno al 16 gennaio di ogni anno), per durare tutto il periodo del Carnevale e concludersi il martedì grasso nella maggior parte dei centri, con l’eccezione di alcuni dove il giorno di chiusura corrisponde al mercoledì delle ceneri. L’apparizione delle maschere non era fine a se stessa, ma faceva parte di una sorta di rito apotropaico, generalmente legato al mondo agro-pastorale.
Nonostante le maschere cambino da paese a paese, esse hanno comunque quasi tutte un’origine unica che ha a che fare con il paganesimo, in cui il leitmotiv era la fecondazione delle terra e il sacrificio dionisiaco. Questi riti avevano un legame con la natura fortissimo, e seguivano sia le stagioni che i cicli lunari ed avevano come scopo ultimo quello di richiedere benevolenze e favori particolari agli dei. La rappresentazione attuale, seppur cerchi di mantenere le stesse caratteristiche sia dal punto di vista del vestiario che dello svolgersi del rito, ha perso, nell’immaginario collettivo, la valenza apotropaica che aveva un tempo, ed assume oggi più che altro un carattere teatrale rappresentativo oltre che, in un certo senso, più ‘commerciale’. Questo non intacca comunque la bellezza e l’unicità che possono offrire le maschere sarde di cui mi sono largamente occupato.