Un autore deve seguire una propria vena narrativa, una propria vena poetica, anche a rischio di farsi categorizzare. Forse la quella di Aldo Feroce passa per il Sudamerica, ma non lo identifica di certo in questo unico ambito territoriale. Aldo Feroce a 3 interviste per 3 autori.
Lo scambio di battute che segue fa capo, questa settimana, ad una conversazione tenuta per vie diverse, anche riportate, la quale si condensa in quella che è la partecipazione dell’autore Aldo Feroce a 3 interviste per 3 autori. Come sempre un ringraziamento per la preziosa collaborazione va a Roberta Pastore del gruppo Street Photography in the World.
Provate a scorrere il contenuto del sito Web di Aldo Feroce. Non vi troverete una sovrabbondanza di contenuti da costituire di per se un’agenzia di stampa a se stante. Al contrario vi troverete però riferimenti estremamente consistenti di quelle che sono state pubblicazioni di rilievo su quotidiani internazionali che hanno visto in Aldo Feroce quel medesimo stile raffinato di fare reportage (o fotogiornalismo, se volete) che ha attratto anche noi. Aldo Feroce non fotografa da sempre ma fotografa in modo intenso. La sua fotografia è una fotografia elegante, studiata, ricercata così come ricercate sono le storie che ci racconta. Certo, un autore deve seguire una propria vena narrativa, una propria vena poetica, anche a rischio di farsi categorizzare.
Forse la quella di Aldo Feroce passa per il Sudamerica, ma non lo identifica di certo in questo solo ambito territoriale. Di certo passa per le persone che fotografa. Basti pensare al fatto che uno dei suoi progetti più diffusi, in fieri, si sviluppa a poca distanza da dove il fotografo ha trascorso la propria vita e narra di Corviale, nei pressi della Capitale.
Ancora un esempio di come il soggetto ‘uomo’ sia quello che fornisce peso ad un racconto per immagini. A patto di saper narrare e saper vedere dietro la quotidianità. Aldo Feroce sa fare bene entrambe le cose. Il colore è un connotato importante della sua estetica: moderato ma intenso laddove occorre. Misurato ma non certo carente, anzi. Lo stesso dicasi per la composizione che gli è propria: se deve inclinarsi si inclina, ma il giusto, non uno zic di troppo ed anzi, preferibilmente, la fotocamera di Feroce resta dritta, realista e schietta su una scena e soggetti che sono i soli a dover parlare, grazie anche a luce e colore.
Lo stile di Aldo Feroce rammenta di esempi celebri nella fotografia di viaggio e documentaria come quelli che per decenni sono passati sulla pagine dei grandi magazine internazionali. Il riferimento al National Geographic è scontato. Il dono della lucidità di una narrazione pulita e esteticamente appagante appartiene a Feroce, di cui proponiamo 4 lavori ambientati in 3 continenti: Asia, Europa e America.
Ecco il resoconto del dialogo, che di questo si tratta più che di un’intervista, intercorso in occasione di questa nuova puntata di 3 interviste per 3 autori: Aldo Feroce. Come per i capitoli che la precedono vi suggerisco di leggere gli scatti prima del testo, per poi immergervi nel racconto che l’autore fa di se, della realtà che racconta, di coloro che ha incrociato.
Buongiorno Aldo, grazie mille per questa possibilità di intervistarla. Oltre all’ovvio trasporto dettato dalle storie che lei ci racconta con i suoi scatti, nello scorrerli sono rimasto estremamente colpito da due aspetti stilistici in particolare, circa i quali troverà a più riprese rimandi nelle domande che seguono. L’uso della luce e del colore per prima cosa e la consistenza della composizione fotografica in secondo luogo. Trovo che tutti questi elementi definiscano un fotografo dalla grande esperienza pratica sul campo alle spalle. Dove e quando ha iniziato a fotografare? Ci racconti un po’ di lei.
Il mio rapporto con la fotografia ha due date o, meglio, due periodi distinti. Il primo è quello della scoperta, della passione e della giovane età dei miei 19 anni, il secondo quello della consapevolezza, della mia seconda vita. Oggi preferisco pensare a questo mio secondo periodo, in cui mi ritrovai a 52 anni fuori dal mondo del lavoro (gennaio 2009) e la fotografia è stata un passaggio importante che mi ha accolto, ridato fiducia, ed aiutato a ricostruire la mia autostima. Partendo dalle fotografie di cerimonia, ho frequentato successivamente corsi in una scuola di fotografia per cercare di perfezionare quello che negli anni 80 avevo assimilato da autodidatta.
Luoghi, persone e tempo possono intersecarsi in vario modo per dare vita a storie. Da quale di questi elementi lei si sente maggiormente attratto come fotografo documentarista? È la storia che la porta a fotografare o sono i luoghi o le persone coinvolte nei fatti?
Sebbene luoghi, persone e storie siano tutte e tre collegabili tra loro, credo che sia più la storia ad appassionarmi e coinvolgermi. I luoghi non sono quelli esotici ma quelli che mi hanno ospitato e dove ho sviluppato maggiormente una relazione ravvicinata; le persone sono sempre al centro di ogni mio progetto.
Corviale è uno dei suoi progetti più pubblicati. È curioso da un certo punto di vista che lei, romano quantomeno di nascita, sia riuscito a mantenere una visione così oggettiva di un luogo che dovrebbe esserle familiare, almeno per prossimità. In fin dei conti ‘nemo propheta in patria’… Ci parla del suo rapporto con Corviale, di come è nato il progetto e di come esso si è evoluto ed evolve nel tempo? È sufficiente la fotografia a narrare una realtà così ampia e variegata?
Corviale non è solo una periferia di Roma, Corviale è anche il luogo dove io sono nato e vivo. Quando nel 1977 iniziarono i lavori per la costruzione del più grande grattacielo orizzontale di Europa per noi che abitavamo la vecchia Corviale ci furono tanti disagi. I miei primi scatti al Corviale risalgono al 1977 su pellicola in bianconero e ritraggono la nascita del cantiere e gli abbattimenti degli alberi.
Difficile dimenticare un luogo che prima del palazzo era il terreno dei tuoi giochi. Per 20 anni non sono mai entrato nel palazzo, ci entrai la prima volta nel 2007. Fu un ingresso come si direbbe da ‘mordi e fuggi’, condizionato da elementi di forte contaminazione da parte del pregiudizio. Il mio sguardo era alla ricerca di immagini stereotipate ed infatti non vedevo altro. Nel 2014, sicuramente più maturo e consapevole, torno nel palazzo. Sono gli anni delle riqualificazioni, la politica è in piena attività, bandi su bandi dove i progetti parlano quasi sempre di modificare la materia. È un via vai di architetti, ingegneri e politici, non si vedono né antropologi né sociologi, nessuno si occupa dell’uomo.
Ancora una volta sono le periferie a offrire spaccati di realtà che si rivelano sempre differenti di quello che uno sguardo fugace potrebbe catturare. Corviale sarà anche un posto urbanisticamente fallimentare, ma è innegabile dalle storie che si leggono nelle sue immagini che vi cresce un’umanità ricchissima di legami, mutuo ausilio ed anche creatività. È il suo obiettivo particolarmente indulgente o è proprio questa la realtà dei fatti?
Questo abbandono sociale diventa per me fondamentale, forse la chiave di lettura del mio lavoro. Soprattutto la popolazione di anziani, la più numerosa e sicuramente la più disagiata in quanto deve risolvere ogni giorno problemi dovuti al quasi costante non funzionamento degli ascensori che li costringe ad essere prigionieri in casa. Il mio rapporto con le persone diventa più familiare; io sono un uomo del posto e questo facilita il mio lavoro. La fiducia viene quasi subito conquistata, non entro nelle loro case se non invitato, saranno loro a chiedermi di farlo; non vado a rubare la loro intimità se non per un obiettivo preciso: dare voce agli invisibili, far conoscere la dura realtà, a volte bella a volte no, dare voce e visibilità a ragazzi che sono riusciti ad emergere nonostante le mille difficolta.
Il legame con molte persone è abbastanza forte tanto è che oggi il contatto o le visite sono abbastanza frequenti. Oggi per molti di loro sono diventato il loro archivio fotografico, sono il loro fotografo di zona e per me aver stabilito questo tipo di rapporto vale molto più di un World Press Photo. Nella galleria al 4° lotto di Corviale ho donato una gigantografia di 2 anziani che si baciano in bianco e nero, “L’amore esiste” questo il titolo, perché le persone non devono perdere l’abitudine, anche nel loro grigiore, di amarsi.
Può essere che io abbia visto delle sue immagini di Corviale in bianconero, forse addirittura in fisheye? Lei però propone progetti (Argentine, Cuba, Roma) tutti caratterizzati dall’uso del colore. Un colore pacato e composto, ma mai in bianconero. Come mai questa ‘preferenza’? Come si è evoluto il suo stile da questo punto di vista nel tempo? Aldo Feroce è sempre stato quello che noi vediamo oggi, fotograficamente ed esteticamente parlando?
Il mio primo giro a Corviale era in bianconero, per me quello fu l’ingresso segnato da un preconcetto dove tutto veniva visto come degrado abbandono e dove il grigio del luogo poteva essere rappresentato solo con la durezza del monocromatico volutamente usata e sicuramente alcune svirgolate con ausilio di lenti fisheye. Adoro il bianconero e non ho nessun pregiudizio nella scelta del colore. Otro Aires ad esempio è stato pubblicato su Witness Journal in bianconero.
Il periodo dei corsi formativi mi indussero ad esempio a semplificare di molto il corredo fotografico; ho capito ad esempio quanto sia importante poter lavorare quasi sempre con la stessa lente perché’ ti abitua ad avere una giusta distanza dal soggetto e crea la giusta armonia in una sequenza. Stessa cosa per la scelta del colore o bianco e nero. Queste sono scelte che faccio prima di iniziare un lavoro o meglio, penso un progetto magari scegliendo il bianconero magari in corso di opera lo cambio. Corviale ad esempio pensavo dovesse essere monocromatico, in corso di opera ho cambiato idea e oggi sono ancor di più convinto.
Leggo nella sua biografia che, agli esordi della sua carriera, lei si è occupato di matrimoni. Il Matrimonio è un genere spesso sottovalutato da un punto di vista ‘formativo’. La fotografia di matrimonio è una grande scuola di fotografia reportagistica e sociale al tempo stesso, di ritratto e di azione. Lei fotografa le persone in modo istintivo ma con inquadrature estremamente controllate, composte direi. È uno stile di reportage che ha fatto scuola (lei mi pare molto National Geographic in questo) e che oggi tende a venire meno lasciando spazio a stili più ‘improvvisati e nel complesso assai meno riconoscibili da un lavoro all’altro anche per singoli autori. Nelle sue immagini, al contrario, si riconosce una ‘mano’ comune. È d’accordo con questa visione delle cose?
La fotografia di Matrimonio è stata per me un’ottima palestra, non si impara solo a fotografare ma a prendere delle responsabilità, saper dettare i tempi e non dimenticare nulla dell’evento. Nei matrimoni prima di ogni iniziativa personale, mi sono sempre garantivo quelli scatti posati che sono fondamentali per un evento e che non potranno mai mancare. Chi si sposa ha solo un desiderio piacersi e tu devi riuscire a farlo. Nel reportage non è così. La foto deve essere funzionale al tuo progetto.
Mi pare per altro di notare, sempre riferendomi agli scatti romani sebbene poi i cantieri indiani confortino la tesi, che le piacciano le composizioni ‘ancorate’ a qualche elemento della scena: la fotocamera dritta, la simmetria, a volte con il soggetto al centro. È una cifra stilistica nata per via del soggetto architettonico proprio di questo luogo o è un fattore che torna in altri suoi lavori perché istintiva?
La centralità compositiva sicuramente è ricollegabile alla centralità dell’uomo, elemento fondamentale dei miei lavori.
Before Night Falls, di Aldo Feroce.
“È complicato oggi rintracciare un altro sogno a Cuba che non sia quello di fuggire”.
Cuba, da sempre, non è solo Cuba. È anche il suo difficile e tormentato rapporto con il mondo esterno, con ciò che è vagheggiato e temuto, atteso e discusso. Tutto ciò che è altro – un’altra vita, un’altra possibilità, un’altra terra – fa parte di Cuba e dei cubani come un dolcissimo male dai tratti spesso indistinti. Così, capita che l’allegria perenne del suo popolo si trasformi in un abito che copre il cieco desiderio di cambiamento e che Cuba, patria della vitalità, del calore, dell’energia e dei balli ininterrotti, riveli all’improvviso una malinconia straziante.
Il Bloqueo (come qui chiamano l’embargo), nonostante le aperture del presidente statunitense Obama nel 2016, è ancora una realtà con cui fare i conti. Il sito Cubadebate stima in 16 miliardi di dollari le perdite annuali del Paese dovute ai blocchi commerciali ancora in atto. Basterebbe un solo giorno senza embargo per assicurare un anno di cure agli oltre 300 mila cubani affetti da diabete, cancro e altre patologie gravi. Ma il Bloqueo non ha solamente congelato gli scambi commerciali con altri Paesi, ha tolto ad ogni cubano la possibilità di immaginare un Paese diverso.
È complicato oggi rintracciare un altro sogno a Cuba che non sia quello di fuggire. Un sogno intimo, coltivato segretamente, di fronte al quale la collettività rumorosa e festante si trasforma in tante individualità solitarie e silenziose.
Secondo l’autore “ciò non è colpa della rivoluzione, che ha contribuito a radicare valori preziosi che si mantengono intatti – l’accoglienza, la solidarietà, per citarne un paio – ma della miseria che da una trentina d’anni continua a riproporsi come minaccia ciclica”. Ma soprattutto, prosegue Feroce, “manca un’educazione che consenta ai cubani di distinguere realtà e fiction, di conseguenza moltissimi avrebbero voglia di scappare altrove senza conoscere davvero le condizioni di chi vive e lavora in quell’ovunque dorato”.
Darukhana (Ship breaking Yard, Darukhana, Mumbai), di Aldo Feroce.
Darukhana è una zona industriale a nord di Mumbai nota per i cantieri in cui vengono demolite e riutilizzate parti navali.
un numero imprecisato di cantieri offre lavoro a circa 6.000 persone che provvedono in 12 settimane allo smantellamento di 20000 tonnellate di navi cargo.
Le condizioni di lavoro sono pericolose sia per il metodo di smantellamento,quanto per le sostanze altamente tossiche presenti.
Entrato nel Dock sono travolto da un rumore assordante comunicare è quasi impossibile.
Il forte odore di fiamma ossidrica misto ai lubrificanti bruciati rende l’aria irrespirabile.
Neppure la pioggia Monsonica,tipica di questo periodo dell’anno,sembra intimorire i lavoratori che procedono incessanti.
La mia presenza non li disturba. Cerco di Interloquire con qualcuno per conoscere le loro condizioni di vitae il loro salario. Uomini provenienti da zone rurali dell’India o dal Pakistan rischiano la vita ogni giorno per una paga giornaliera inferiore ai 2 Euro.
La rottamazione di materiali di vecchie naviga carico provenienti da tutto il mondo e l’esportazione di rottami d’acciaio contaminato,sono un business molto redditizio grazie all’irrisorio costo del lavoro.
E’ verruche la rottamazione di materiali crea ricchezza,ma le condizioni in cui gli operai lavorano causano quotidianamente incidenti dovuti alla mancanza di protezioni, all’esportazione al rumore ed alla contaminazione di amianto,piombo,arsenico,olio,solventi cromo.
Le zone circostanti sono colpite da inquinamento chimico dovuto ai vari liquidi scaricati nell’acqua utilizzata dagli abitanti per lavare e cucinare.Guardandoli lavorare così duramente,mi stupisco di percepire nei loro sguardi una felicita’ inconsueta, forse inconscia.
Sorridono come se fossero i protagonisti di un film,un film fatto di tante , diverse sfaccettature che non riusciamo nemmeno ad afferrare.
Yo soy Fidel, di Aldo Feroce.
La Carovana con le ceneri del Comandante è partita il giorno 30 novembre 2016 dall’ ’Avana alla volta di Santiago di Cuba.
Le spoglie mortali del Presidente, avvolte nella bandiera cubana e protette da una teca di vetro, hanno percorso lo stesso tragitto che nel gennaio 1959, a pochi giorni dal trionfo della rivoluzione, Fidel Castro intraprese per raggiungere L’Avana.
Il convoglio arriverà a Santiago il 3 dicembre dopo un viaggio di oltre mille chilometri attraverso le principali città dell’isola i cui abitanti, specialmente “campesinos”, hanno utilizzato tutti i mezzi a disposizione per assistere al passaggio e dare l’ultimo addio all’eterno guerrigliero.
Tra i suoi progetti c’è anche molto Sudamerica. Come mai questa passione? È innegabile sottolineare come lo scenario di Cuba o dell’Argentina, per quanto a tratti ‘esotici’, condividono con il nostro paese enormi analogie nel modo di vivere e di affrontare i rapporti sociali. Come è finito a fotografare la crisi argentina, i cantieri navali in India o i funerali di Fidel? Cos’è che la muove a fotografare? Che cos’è che la attira? Di primo acchito potrei azzardare che siano i legami che tengono assieme o uniti verso uno scopo comune le persone ad essere la costante dei suoi lavori che ho potuto leggere. È così?
Nella mia prima vita sono stato un assistente di volo, le relazioni nate durante questi 30 anni sono stati abbastanza forti, soprattutto per L’Argentina e L’India, Cuba è venuta dopo. Con questi luoghi io ho stabilito relazioni importanti che non mi hanno mai fatto sentire un turista. Viverle per me significa partecipare ed essere coinvolto, questa cosa vale per Corviale cosi come per Cuba o l’Argentina. Mi sento un testimone del tempo. Fidel è sicuramente tra i personaggi del secolo scorso più carismatici, poter assistere ad un evento così importante mi ha riempito dal punto di vista umano come nessun altro evento nella vita. Ho percorso 700 km ed ho incontrato lo sguardo del suo Popolo, non potrò, mai dimenticare. Nei cantieri navali la cosa che mi colpi molto fu il rumore assordante e un odore acre di tanti materiali inquinanti… ma i loro occhi non si dimenticano, le persone nonostante il durissimo lavoro sorridevano come se fossero protagonisti di un film.
Nel lavoro ‘Before Night Falls’ troviamo una luce e delle composizioni fotografiche veramente pazzesche (scusi il termine colloquiale). Verrebbe da chiederle come ha fatto ma la domanda sarebbe banale. Le chiedo invece che cosa pensava in quei momenti in cui stava riprendendo. Per lei era tutto normale o è stato impegnativo massimizzare la resa della scena che aveva di fronte? Quali sono gli elementi che ha riconosciuto e che ha ricercato in quei momenti? Insomma: il suo istinto di fotografo che cosa ha individuato come movente allo scatto e che cosa ha invece richiesto la competenza tecnica?
Il lavoro Before Night Falls e, un lavoro che non è, terminato diciamo che vorrei portarlo avanti anche se è stato presentato al Moskow Award, con un buon riscontro. Cercavo immagini che potessero cadere più o meno sul calare della luce in esterno per creare, quella sensazione di sospensione che io percepisco. La foto con il televisore acceso con Fidel tra le tende è stata una istintiva, me la sono trovata davanti ed ho scattato senza guardare I parametri della macchina per non perderla, mentre al contrario l’uomo che guarda tra le feritoie della finestra e, uno scatto ricercato e voluto.
Le vorrei porre anche alcune domande prettamente tecniche, essendo che la fotografia è anche questo. Solitamente con quale tipo di attrezzatura viaggia e si sposta? Ha preferenze per particolari ‘configurazioni’ che trova rispondere meglio di altre alle sue esigenze espressive? Ed in passato? Forse mi sbaglio ma almeno anagraficamente, lei un po’ di pellicola colore dovrebbe averla impressionata…
L’attrezzatura che uso normalmente quando mi sposto in viaggio è sempre composta di 2 macchine e una compattina, un pc portatile, un HD, un quaderno, batterie e telefono. Generalmente uso due lenti, un 25mm e un 35; ognuno è su un corpo macchina. Difficilmente utilizzo le 2 macchine insieme a meno che non si tratti di eventi come il funerale di Fidel. Preferisco utilizzare quasi sempre un’ottica alla volta e camminare leggero senza borse o quant’altro per sentirmi libero di muovermi e per mettere a proprio agio chi ho davanti. Io come autodidatta negli anni 70 sviluppavo negativi e stampavo in bianco e nero. Mentre la pellicola colore mi è sempre stata indifferente.
Come avvicina ed approccia, con la fotocamera in mano, i suoi soggetti? Cerca un rapporto umano a prescindere dallo scatto o si muove da fotoreporter puro, per il quale (non sto giudicando) tutto inizia e tutto finisce nel momento della ripresa? Dal punto di vista personale lei si fa ‘prendere’ dalle storie che racconta o riesce a mantenere un certo grado di distacco professionale?
Normalmente se ho tempo a disposizione o qualche giorno per fotografare qualcosa, non mi faccio prendere dallo scatto compulsivo, anzi mi rendo conto che oggi scatto davvero molto poco in rapporto a qualche anno fa e lo faccio con una ricerca mirata. Se posso cerco di conoscere le persone e solo dopo averle conosciute inizia il rapporto di shooting. Questo generalmente ti rende trasparente poiché’ il soggetto si abitua a te e a quello che porti in mano o in spalla. La macchina va sempre tenuta fuori per abituare al soggetto che deve capire che tu e la macchina siete inseparabili. Non riuscirei a mantenere un rapporto professionale distaccato, tanto più c’è empatia tanto più cresce il legame. Nei miei lavori vedo un senso di restituzione per quei luoghi e persone che mi hanno dedicato tempo prezioso, e tanto amore.
Mi piace il rapporto delle sue foto con gli oggetti, grandi, piccoli o immensi che siano. A volte sono soggetto a sé stante, a volte fungono da quinta teatrale ove collocare personaggi, altre volte ancora sono pura scenografia. Fatto sta che, quando presenti (una bandiera, un ritratto votivo, un rottame o uno schermo televisivo, …), lei li tratta con cura, componendoli proprio come se avessero vita propria. Vi si riconosce una sorta di curiosità che va oltre la storia narrata: è molto attento a questo tipo di dettaglio solitamente? Si guarda molto ‘in giro’ prima di scattare? È importante la conoscenza del posto quando si affronta un progetto di ripresa che non è solamente ‘mordi e fuggi’?
Mi piace osservare la scena che ho davanti, la mia lente preferita è, il grand’angolo e in quella scena vorrei che ci stia tutto quello che sto osservando. Il dettaglio soprattutto nel ritratto contestualizzato diventa importantissimo non potrei farne a meno, diversamente succedeva nei matrimoni dove cercavo di stringere di più il campo per non inserire elementi di disturbo. Ho imparato ad osservare i luoghi durante tutto l’arco del giorno, la luce è fondamentale e non del tutto casuale. Varrebbe sempre la pena fotografare in più condizioni diverse di luce. Non potrei mai scattare in un luogo senza conoscere la sua anima e il suo cuore. Lo scattare in condizioni mordi e fuggi non mi entusiasma molto perché’ ho bisogno di sentirmi parte del progetto, può essere funzionale per fotografare la news ma diventa fotografia arida se volessimo raccontare qualcosa.
Le vorrei porre una domanda ‘scomoda’ ma che nulla toglie al merito del suo lavoro, siamo qui per questo in fondo! Il numero dei progetti che le afferiscono è ridotto se paragonato alla media di altri suoi coetanei. È perché precedentemente ha percorso professionalmente altri generi.
Precedentemente avevo un sito registrato che ho di fatto chiuso. Ad un certo punto non mi sono più ritrovato, quello che avevo fatto aveva appagato la mia prima fase, cercare di fare singole foto non soddisfaceva più il mio desiderio, oggi il mio modo di vedere la fotografia è quello di poter raccontare qualcosa. Ci sono solo 3 lavori caricati dentro il mio sito, fuori ce ne sono altri che devono solo essere conclusi ed editati. Primo tra tutti Corviale (non sarà questo il titolo), Otro Aires è un altro di lavoro pubblicato ma non presentato nel mio spazio web.
Si guardi allo specchio e ci riveli quali sono le doti di Aldo Feroce che lo rendono un bravo fotografo documentarista (volevo scrivere ‘grande fotogiornalista’ ma mi avrebbe senza dubbio contestato lo slancio, anche se non la conosco di persona e non si può mai dire…).
Non ho rimpianti e spesso mi chiedo come sarebbe stato il mio rapporto con la fotografia se non fosse scoppiato così prepotentemente nel 2008. Come tante altre cose nella vita mi piace vivere in equilibrio, la fotografia mi ha restituito ciò che ho perso e cerco di restituirlo con i miei lavori. Dovrei sistemare e chiudere i lavori che ho iniziato e non concluso. Il rapporto ad esempio con Cuba mi stimola molto e mi sembra di aver raggiunto un buon rapporto di interazione con luogo e persone, mi piacerebbe assistere ad esempio ad una loro trasformazione e continuare a sentirmi il testimone del tempo. Vorrei sentirmi come Jon Alpert che ha documentato 40 anni di storia del paese a dir poco commoventi.
Le chiedo quello che chiedo spesso agli autori che intervisto poiché i riscontri che mi giungono sono sempre estremamente pregni di coloro che me ne parlano: può scegliere un singolo scatto ‘preferito’ dal suo archivio, fosse anche una Polaroid di quando era bambino, e dirci perché lo preferisce a tutti gli altri? Come è stato scattato, dove e perché?
Se dovessi scegliere un singolo scatto non avrei dubbi. Rappresenta per me qualcosa di importante, non solo un’icona fotografica. 1980, 23 anni il primo grande amore che si sposa sia con il soggetto che con la passione fotografica, le 2 cose si fondono e restituisco in forma artistica tutto il mio amore. Lei non rimarrà solo una modella ma anche la donna della mia vita. Una fotografia che fa parte di me, scattata in casa con luce ambiente su un negativo Ilford Fp4. Una fotografia intima sotto ogni punto di vista che mette a nudo il mio modo di vedere di la fotografia.
Grazie mille Aldo, le rinnovo il mio sincero apprezzamento per il suo lavoro.
Introduzione: 3 interviste per 3 autori – Moscatelli, Takaaki, Feroce
Prima parte: Fabio Moscatelli
Seconda parte: Takaaki Ishikura