In equilibrio, come sulla lama di un coltello. Sebastiao Salgado racconta la sua storia fatta di economia, fotografia, amore e ambientalismo.
Il vero amore esiste, il vero amore è per sempre. Ci possono essere battute d’arresto, ci possono essere incomprensioni che ti fanno dire “mollo tutto” ma è sempre possibile tornare sui propri passi e ricominciare con un nuovo slancio. Questo almeno è ciò che è accaduto a Sebastião Salgado, un maestro che ha fatto proprio il concetto di sensibilità e lo ha trasposto nella fotografia. Proprio lui ha sperimentato sulla propria pelle cosa voglia dire disinnamorarsi e rialzarsi, più forti di prima.
Una storia di vita, quella di Salgado, fatta di scelte importanti, salti nel buio, battute d’arresto e amori smisurati. Due su tutti. Il primo, quello che lo lega alla sua compagna Lélia Wanick Salgado dalla quale non si è mai separato; il secondo, quello per la fotografia, dalla quale ha avuto un momento di distacco ma a cui è tornato a legarsi in maniera indissolubile. È una persona molto calma e posata ma diventa come un fiume in piena quando parla, non certo per la velocità delle parole che fuoriescono dalle sue labbra quanto per la loro intensità. Ci ha raccontato la sua vita, una parte significativa, a Londra a latere del premio Outstanding Contribution to Photography dei Sony World Photography Awards 2024.
“Ho cominciato molto presto, nel 1972-73 ero un fotografo amatoriale. Fin da subito, quando ho guardato nel mirino, la mia vita è cambiata: potevo materializzare le cose che vedevo.” Ma per cambiarla del tutto doveva far sì che la fotografia diventasse un mestiere, senza rimanere solo una passione. E quella vita gli pose una grande domanda: cosa vuoi farne di me?
Salgado nasce come economista, si traferì a Londra nei primi anni Settanta e subito i suoi studi cominciarono a fruttare. Il suo primo lavoro fu alla World Bank, un’opportunità enorme per l’epoca, iniziò a lavorare nel segmento degli investimenti e a concentrarsi sulla diversificazione delle piantagioni di caffè in giro per il mondo con altri giovani economisti portoghesi e francesi. I primi dubbi sul suo futuro, insistenti, arrivarono fin da subito. “Il primo progetto che abbiamo finanziato è stato sulla produzione di tè in Ruanda. Ho portato con me la mia macchina fotografica e quando sono tornato a Londra mi sono accorto che le foto mi stavano dando 10 volte la soddisfazione del risultato economico ottenuto.”
Il passo fu breve. Un pomeriggio in quel di Londra, su una barchetta in mezzo Serpentine Lake di Hyde Park, Sebastiao raccontò di questi suoi dubbi a Leila e, anche grazie al suo appoggio, decise di abbandonare la carriera economica per dedicarsi alla fotografia. Gli fece da bastone e lo supportò: “Fu lei ad aiutarmi all’inizio, ho avuto questa opportunità anche grazie a Leila che era già un avviato architetto.” Dietro un grande uomo, c’è sempre una grande donna. Da quel momento decise di abbandonare Londra e di trasferirsi a Parigi per cominciare la sua nuova carriera da fotografo. A quei tempi serpeggiavano marxismo e leninismo, la cultura hippy, il capitale, la tecnologia, il lavoro sociale. “Negli anni Settanta il lavoratore produceva ma non riceveva indietro il guadagno di ciò che produceva. E poi arrivarono gli anni Ottanta con nuove tecnologie e cambiò nuovamente tutto.”
Per sei lunghi anni documentò questo cambiamento che sfociò in un libro, Workers, dove cercò di spiegare l’impatto della globalizzazione sulla società. È una storia creata per spiegare un’epoca intera, quella della Rivoluzione Industriale, in cui uomini e donne lavoravano manualmente. Un mondo visto attraverso una serie di reportage nelle cui immagini si legge di come si produca solo per chi può consumare, solo per quel “famoso quinto”. Prima di questa grande opera svariati lavori in Africa, considerata la sua seconda patria, tra i quali la fascia del Sahel, l’Angola e il Mozambico; progetti a lungo termine dai quali si delinea fin da subito la sua grande forza: la fotografia sociale.
Una forza che deriva non tanto dalla pratica, non tanto dall’occhio, quanto dai suoi studi. Anche se oggi tutti fanno fotografie, non tutti possono essere dei fotografi; per lui sono una razza a parte, sono quel tipo di persone che sanno quando possono o non possono scattare, che sanno quando un semplice sguardo ti autorizza a premere l’otturatore. “Nonostante i numeri di oggi, i veri fotografi sono lo stesso numero di quelli che c’erano vent’anni fa. È come camminare sulla lama di un coltello, non bisogna essere tagliati ma neanche essere da una parte o dall’altra della lama e solo in pochi riescono a farlo. Molti hanno l’illusione di fare fotografia ma solo pochi hanno il piacere di essere adatti e di viverla dentro di loro. Per prima cosa bisogna capire la società in cui si vive, studiare antropologia, sociologia, storia e politica, solo dopo si può fare una fotografia che dica veramente qualcosa.” Il suo riferimento dell’epoca fu Gilles Perees: “Lui ha studiato, Lui ha capito. Ed è questo l’importante.”
Il tutto, rigorosamente, in bianconero. “La mia fotografia non si è evoluta tanto, sono peanuts. Sono io che sono cambiato”. E quelle noccioline che menziona sono a colori. “Per me è molto complicato, non mi sono mai identificato come un fotografo a colori. Sono stato costretto a fotografare a colori perché tutta l’adv e l’offset erano a colori, ecco perché nessun magazine del tempo voleva pubblicare il bianconero. Ma così mi accorsi che non ero attento alla personalità e alla dignità di chi fotografavo, allora ho trasformato tutti i colori in scala di grigio. So che il bianconero è una distrazione, nulla è in bianconero nella vita, ma per me utilizzarlo era più facile per materializzare ciò che io avevo bisogno di fotografare. Quando guardi il colore vedi delle fotografie normali, l’ordinario. Ma quando guardi il bianconero istintivamente le colori a mente e la fotografia diventa parte di te perché ti ci identifichi. Questo è il potere del bianconero.”
Un amore che però subì una forte battuta d’arresto. E fu il genocidio in Ruanda a dargliela. La delusione nei confronti della specie che aveva fotografato per decenni e la depressione che ne seguì gli fecero prendere la decisione di interrompere la sua carriera. E ancora una volta fu Leila a “salvarlo” coinvolgendolo in un progetto ambientale di riforestazione in Brasile partendo dalla terra di proprietà della famiglia: l’Instituto Terra ha, ad oggi, già piantato circa tre milioni di alberi. “Abbiamo scoperto di essere ecologisti. Assistere alla rinascita della natura in una zona morta è stato rigenerante. La vita è tornata anche in me.” E con essa, la voglia di ricominciare a fotografare. Galvanizzato da questo progetto riuscì nuovamente a girare il mondo alla ricerca di quei luoghi non ancora intaccati dall’uomo, dov’è ancora possibile cattuare immagini che evocano tutta la bellezza e la potenza della natura. Ed è da qui che sono nate le ultime due opere di Salgado, Genesis e Amazonia.
Molte delle domande che ci poniamo oggi sul nostro futuro, piccole o grandi che siano, trovano risposta nelle parole di Sebastião Salgado, un uomo, non solo un fotografo, spinto da un forte senso di responsabilità. Oggi viviamo di immagini, ne siamo letteralmente bombardati. Ma per far sì che diventino vere fotografie è necessaria la consapevolezza della società in cui viviamo e della terzietà di questa posizione, bisogna avere un ampio bagaglio culturale e tanta sensibilità.