Sono molte le opere fotografiche esposte quest’anno in occasione della Biennale, una esposizione ricca e interessante che ci fa anche scoprire autori poco noti. Per visitarla c’è tempo fino al 24 Novembre.
Quest’anno la Biennale spegne 60 candeline e lo fa con una edizione un po’ speciale, a partire dal coloratissimo murale che il collettivo brasiliano MAHKU (Movimentos dos Artistas Huni Kuin) ha realizzato sulla facciata del padiglione centrale, normalmente dipinto di bianco minimalista.
Il curatore è Adriano Pedrosa, direttore del Museo d’Arte di San Paolo, che – tra le altre cose – ha invitato alcuni artisti meno conosciuti e riunito una serie di opere di pittura e scultura antiche provenienti da Asia, Africa, Medio Oriente e America Latina. La consueta attenzione per la creazione di immagini sperimentali, in questa edizione si fa un po’ da parte per lasciare spazio a una esplorazione del passato in cui trovare le radici del nostro presente.
Il titolo della Biennale è “Stranieri Ovunque” ed è stato preso in prestito da una serie di lavori realizzati dal 2004 ad oggi dal collettivo Claire Fontaine, un gruppo di artisti nato a Parigi e con sede a Palermo. Le loro opere esposte sono realizzate con neon di diversi colori. Le parole “Stranieri Ovunque” sono ripetute in diverse lingue, tra cui alcuni idiomi indigeni (correnti o estinti). L’installazione si trova alle Gaggiandre dell’Arsenale.
La mostra si sviluppa in due sedi principali: il parco Giardini della Biennale di epoca napoleonica e l’imponente cantiere navale rinascimentale noto come Arsenale. In entrambi i luoghi, tra le opere esposte ci sono anche numerose fotografie.
Ma, perché è stato scelto proprio il tema “Stranieri Ovunque”? Come spiega il curatore è Adriano Pedrosa, viviamo in un mondo brulicante di crisi multiformi che riguardano il movimento e l’esistenza delle persone all’interno di Paesi, nazioni, territori e confini; crisi che riflettono i pericoli e le insidie legate a questioni di lingua, traduzione e nazionalità, che a loro volta mettono in luce differenze e disparità condizionate da identità, cittadinanza, razza, genere, sessualità, libertà e ricchezza. In questo panorama, l’espressione “Stranieri Ovunque” assume più di un significato. Prima di tutto si prende in considerazione il fatto che, ovunque si vada e ovunque ci si trovi, si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo ovunque.
In secondo luogo, a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo e di fatto secondo Adriano Pedrosa si è sempre stranieri. Inoltre, l’espressione assume un significato molto particolare e specifico a Venezia: una città la cui popolazione originaria era costituita da profughi provenienti dai centri urbani romani, una città che in passato ha rappresentato il più importante fulcro di scambio e commercio internazionale del Mediterraneo, una città che è stata capitale della Repubblica di Venezia, dominata da Napoleone Bonaparte e conquistata dall’Austria, e la cui popolazione è oggi costituita da circa 50.000 residenti, ma che nei periodi di alta stagione può raggiungere picchi di 165.000 persone in un solo giorno a causa dell’enorme numero di turisti e viaggiatori (stranieri di tipo privilegiato) che la visitano. A Venezia gli stranieri sono ovunque. “Ma – precisa Adriano Pedrosa – si può anche pensare a questa espressione come a un motto, a uno slogan, a un invito all’azione, a un grido di eccitazione, di gioia o di paura: Stranieri Ovunque! E, soprattutto, oggi assume un significato cruciale in Europa, nel Mediterraneo e nel mondo, dal momento che nel 2022 il numero di “migranti forzati” ha toccato l’apice (con 108,4 milioni secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e si presume che nel 2023 sia ulteriormente aumentato.”
Nelle più disparate circostanze, gli artisti da sempre viaggiano e si spostano tra città, Paesi e continenti; un fenomeno addirittura in accelerazione dalla fine del XX secolo che, ironicamente parlando, è stato un periodo contrassegnato da crescenti restrizioni rispetto alla dislocazione o allo spostamento degli individui.
Biennale Arte 2024 punta dunque i riflettori su artisti che sono essi stessi stranieri, immigrati, espatriati, diasporici, emigrati, esiliati o rifugiati, in particolare quelli che si muovono tra il Sud e il Nord del mondo. E qui i temi chiave sono migrazione e decolonizzazione.
In questa prospettiva, l’installazione TheMuseum of the Old Colony di Pablo Delano è una delle opere con i contenuti fotografici più significative in mostra. In una grande sala, una serie di immagini in bianconero documenta lo sfruttamento coloniale di Porto Rico da parte degli Stati Uniti. Ci sono anche video, oggetti e riviste con titoli eloquenti e una grande scrivania centrale che fa da fulcro a tutto il materiale esposto.
I visitatori esplorano l’installazione ricca di dettagli e documenti. Pablo Delano è un artista visivo e fotografo con uno spiccato interesse per gli archivi e per la vita, le storie e le lotte delle comunità latinoamericane e caraibiche. In questa installazione ha utilizzato materiale storico per esaminare le persistenti strutture coloniali attraverso la lente dell’esperienza di Porto Rico.
Exile is a Hard Job (1977–2024) è un’opera di Nil Yalter e si trova nel Padiglione Centrale. L’installazione prende il nome dalle parole del poeta turco Nâzım Hikmet e include video e fotografie che documentano le vite e le esperienze di immigrati ed esiliati, con il titolo posizionato sopra in grosse lettere rosse, come se fosse uno slogan politico. Nil Yalter, classe 1938, è nata al Cairo da genitori turchi, vive a Parigi ed è conosciuta per avere spaziato dalla pittura al teatro alla fotografia e video per esplorare temi che spesso hanno a che fare con l’attivismo o il femminismo.
All’Arsenale, si trovano 15 opere di River Claure, fotografo e artista visivo noto soprattutto per le immagini meticolosamente costruite. Si tratta delle sue “docufiction” fotografiche: Warawar Wawa (2019-2020) – un adattamento del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry ambientato nella Bolivia contemporanea – e Mita (2022-in corso), un ritratto della vita nelle comunità minerarie andine che rimanda a cinquecento anni di estrazioni coloniali.
Poco lontano è esposta la fotografia Falce, Pannocchia e Cartuccera di Tina Moldotti. L’immagine accosta oggetti evocativi dei militanti comunisti e lavoratori e appartiene a una delle serie esposte nell’unica personale che artista ebbe mentre era in vita. L’esposizione, allestita presso la Biblioteca Nacional Autónoma de Mexico nel 1929, era stata ampiamente elogiata dalla stampa e da personaggi di rilievo come il muralista Siquieros che la proclamò “la prima mostra fotografica rivoluzionaria in Messico”. Moldotti fu espulsa dal Messico poche settimane dopo l’esposizione per la sua attività di dissidente e per il presunto coinvolgimento nel tentato omicidio del presidente Pascual Ortiz Rubio.
Di fianco alla foto di Tina Moldotti si trova il ritratto di guerrigliero armato con uniforme sporca scattato daPaolo Gasparini nel 1961. Il fotografo, nel corso della sua carriera che si è sviluppata tra Caracas e Cuba, ha documentato la campagna di alfabetizzazione e scene di vita quotidiana in contesti rurali a seguito della rivoluzione cubana.
Le fotografie della serie The Geometric Ballad Of Fear (2015) di Kiluanji Kia Henda testimoniano la paura presente in Angola. A prima vista non si capisce il loro significato perché sono immagini di ringhiere che potrebbero essere ornamentali. In realtà la loro funzione è ben altra e il bisogno di proteggersi riflette le problematiche delle grandi città del sud globale a causa delle notevoli disparità tra le popolazioni. L’autore ha accostato a queste immagini un’altra serie con lo stesso nome realizzata in Sardegna nel 2019. Questa volta i motivi delle ringhiere sono elementi grafici disegnati sopra le fotografie, una decorazione che separa lo spettatore dalla natura immortalata.
Oltre a numerose fotografie collocate nei diversi padiglioni, alla Biennale sono presenti anche parecchie opere in video. Per esempio l’installazione della giovane artista sudafricana Gabrielle Goliath che – all’interno del Padiglione Centrale dei Giardini – ha una stanza dedicata al suo lavoro Personal Accounts. In un ambiente buio, i grandi ritratti in video raccontano storie di violenze e trauma. Ma lo spettatore non sente i loro discorsi. Con il consenso degli intervistati, dalle registrazioni video è stato tolto l’audio delle parole lasciando solo elementi paralinguistici come respiri, deglutizioni e sospiri. Il risultato è una comunicazione fatta da tutti quegli elementi che normalmente accompagnano le parole. Sono anche sguardi, gesti impacciati o nervosi, mani che si torcono, esitazioni e pause.
Di grande impatto anche l’installazione nel padiglione della Polonia, Repeat After Me II a cura del collettivo ucraino Open Group.
I protagonisti sono i civili rifugiati che raccontano la guerra attraverso i suoni che hanno imparato a riconoscere: li imitano e invitano chi guarda a riprodurli. Oggi, loro malgrado, sanno riconoscere alla perfezione il suono di varie armi. Una capacità che mostra l’esperienza universale di tutte le persone che vivono in posti colpiti da un conflitto armato, dove la vita è a rischio e si affinano i sensi: da un colpo d’occhio particolarmente veloce o da un udito sensibile può dipendere la possibilità di sopravvivere o meno.
Le opere in mostra alla Biennale sono moltissime, alcune affascinanti, altre discutibili. L’orientamento che punta i riflettori sulle disparità condizionate da cittadinanza, razza, genere o reddito è palpabile. La curatela di Adriano Pedrosa ha una caratterizzazione precisa e il visitatore ha la possibilità di esplorare un tema attualissimo attraverso le prospettive degli artisti in mostra.
Novanta nazioni hanno allestito le proprie esposizioni nei padiglioni dei Giardini e dell’Arsenale e anche in alcuni palazzi e altri spazi in giro per la città.
Parallelamente alle mostre della Biennale e nelle stesse date, a Venezia sono visitabili atri eventi collaterali nei quali è presente la fotografia. Alcuni fanno parte del programma ufficiale e altri no.
Peter Hujar: Portraits in Life and Death, allestita all’Istituto Santa Maria Della Pietà, è la prima mostra in Europa che comprende la serie completa di 41 fotografie riprodotte nel libro del 1976 Portraits in Life and Death.
Si tratta di due serie distinte: la prima consiste in ritratti di personaggi della scena newyorkese che Hujar ha fotografato tra il 1974 e il 1975, la seconda è composta dalle fotografie dei corpi mummificati ritrovati all’interno delle Catacombe dei Cappuccini a Palermo, in Italia, realizzate da Hujar durante un viaggio in loco con Paul Thek nel 1963.
Tra i personaggi fotografati da Hujar ci sono il drammaturgo Robert Wilson, la scrittrice Fran Lebowitz, il regista John Waters, l’artista Paul Thek,il performer Divine (nella foto) e la critica Susan Sontag che ha anche scritto l’introduzione del libro. https://www.peterhujarvenice.com
La Fondazione Giorgio Cini, nella sede di Le Stanze Della Fotografia, propone “Helmut Newton. Legacy”, una grande retrospettiva che ripercorre l’intera carriera di uno dei fotografi più amati e discussi di tutti i tempi con 250 scatti, riviste, documenti e video.
Accanto alle immagini più iconiche, in mostra anche un corpus di fotografie inedite – presentate per la prima volta in Italia – che svela molti aspetti meno noti dell’opera di Newton. Di particolare interesse, alcuni scatti di moda piuttosto anticonvenzionali.
https://www.lestanzedellafotografia.it/it/mostre/mostre-in-corso/helmut-newton-legacy-venezia-2024
A Palazzo Franchetti è allestita una mostra tutta dedicata al seno con i lavori di oltre trenta artisti emergenti e affermati provenienti da tutto il mondo. Le opere in mostra – pittura, scultura, fotografia e cinema dal 1500 ai giorni nostri – esplorano come il seno sia stato rappresentato nell’arte attraverso culture e tradizioni diverse. Tra i fotografi, Cindy Sherman Robert Mapplethorpe (nella foto) e Irving Penn.
L’intento della mostra è quello di promuovere la consapevolezza sul cancro al seno a un pubblico più ampio attraverso il canale dell’arte.
https://www.acp-palazzofranchetti.com/it/exhibitions/23-breasts/overview/
Un’altra mostra selezionata come evento collaterale della 60ª Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia è South West Bank. Gli artisti esposti, prevalentemente palestinesi, esplorano l’agricoltura e l’eredità storica che muta con la trasformazione della topografia. Le opere esprimono l’idea che la “casa” sia fortemente radicata in molte pratiche tradizionali.
«Tutti i lavori presentati sono stati realizzati in una parte molto specifica del mondo», spiega Adam Broomberg co-fondatore di Artists + Allies x Hebron, «Le opere si concentrano su quelli che normalmente dovrebbero essere oggetti, movimenti e suoni di abbondanza, gioia e collettività. In questo contesto, tuttavia, acquistano tutti un nuovo senso di urgenza.» Tra le altre immagini, c’è a fotografia di un ulivo di oltre 4.500 anni, rimasto intatto per secoli e che «ora sembra improvvisamente precario».
Le serie fotografiche sono firmate da Adam Broomberg, Rafael Gonzalez e Baha Hilo, la mostra è allestita a Palazzo Contarini Polignac.
https://artistsandallies.art/projects/south-west-bank/
Per visitare la Biennale ai Giardini, all’Arsenale e nelle altre sedi, è d’aiuto programmare accuratamente l’itinerario e – possibilmente – arrivare a Venezia appena le mostre aprono. Al visitatore attento, forse una giornata non basta. Buona visita!
Enzo Dal Verme
https://www.labiennale.org/it
Fino al 24 novembre